Sport Land News

Solo l’arbitro va al patibolo. de l’Italo africano

di Italo Cucci

B uono il bilancio tecnico del Mondiale dopo gli ottavi. Miserrimo quello umano. E scusate se faccio prevalere il discorso degli arbitri - questa è la miseria ­sulla dovizia di dati tecnici e spettacolari.

Iermattina è “scomparso” Busacca, lo svizzero che solo poche ore prima era candidato a dirigere la finale. Motivazione principe: non lo utilizzavano mai; e l’intelligenza del villaggio precisava: lo risparmiano per il botto finale. Ancora non sappiamo perché sia stato fatto fuori, ma non é questo il problema: é con quale leggerezza, mentre si parla di ipotetiche innovazioni tecnologiche che non saranno mai radicali, si buttano gli arbitri/uomini nella monnezza metaforica che viene invece risparmiata a tutti gli altri protagonisti. Guardate non tanto Larrionda, che dovrà vedersela con gli uruguagi, e non credo che lo sbraneranno per non avere visto il gol di Lampard (funzione cannibalesca che piacerebbe semmai a Capello); guardate Rosetti, che ha atteso una vita di poter fischiare una finale mondiale dopo aver diretto l’ultimo atto di un Campionato d’Europa e di una Champions ed è rispedito in patria con ignominia per un fuorigioco non visto dall’assistente Ajroldi: per carità, chi sbaglia paga, ma come la mettiamo con il massacro mediatico cui è stato sottoposto, aggregato alla compagnia degli Italiani Perdenti (Lippi, la Nazionale e Capello) con un piacere rivelatore di un penoso disfattismo? I media insorgono contro questi Orrori Arbitrali e tuttavia - guarda un po’ - plaudono alla giovinezza e freschezza e allegrezza della Germania che ha giustamente fatto a pezzi l’Inghilterra; e accusano Rosetti per quel fuorigioco ignorato che ha consentito a Tevez di iniziare a fare a pezzi il Messico, ma le cronache non fanno altro che elogiare l’Argentina di Maradona, il Maradona dell’Argentina, così come minimizzano il fallo che avrebbe dovuto far cancellare il gol di Villa costringendo la Spagna a battersi fino in fondo per eliminare il Portogallo. Quegli errori, allora, sono umani o sono mostruosi?

Non sono forse una rappresentazione pratica della mano de Dio, la conferma che la terna arbitrale è solo e sempre una componente del gioco? Per il resto, dicevo, tutto bene: il Sudamerica avanza con una ventina di giocatori presi dal campionato italiano; Germania, Olanda e Spagna hanno i numeri per far immaginare almeno una finale, che so, fra rappresentanti dei due continenti padroni del calcio: ma c’è anche il Ghana, che mi sta diventando sempre più simpatico e che meriterebbe d’essere il Grande Incomodo in nome dell’Africa. In nome di Balotelli: se lo scellerato Mario si facesse furbo, visto che i tecnici d’Italia hanno la puzza al naso, un posto da re nel Ghana pallonaro non glielo negherebbe nessuno.

Prandelli, pensaci tu.
avvenire

Sorprese mondiali ed eclissi di stelle

Rooney e Ronaldo eliminati senza incidere; Kakà, Torres e Messi avanti senza gol. Unica ecceziona la coppia olandese formata da Sneijder e Robben. Lo spagnolo Villa è la grande sorpresa. Su 123 reti segnate sinora solo 11 provengono dalla nostra Serie A

DI MARCO BIROLINI - avvenire

Il Mondiale che non ti aspetti. Ar­gentina, Brasile e Spagna erano e restano le favorite, ma a spinger­le avanti finora sono stati gli attori di secondo piano. Kakà doveva essere la stella cometa della Seleçao, e inve­ce a brillare è l’astro di Luis Fabiano, centravanti del Siviglia che prima del torneo non figurava certamente nel ristretto club dei top player. Leo Mes­si era annunciato come uomo co­pertina, invece ecco sbucare la faccia ruvida di Gonzalo Higuain e i suoi quattro gol. Fernando Torres ha ta­gliato i capelli e sembra aver perso le forze, moderno Sansone. Ci ha pen­sato David Villa a togliere le castagne dal fuoco con quattro guizzi dei suoi. Il Barcellona si frega le mani, con­tento di aver speso bene i 40 milioni scuciti al Valencia. Quanto a Cristia­no Ronaldo e Wayne Rooney, le altre due superstar, hanno fatto la valigia ancor prima che qualcuno si accor­gesse della loro presenza. Le stelle, insomma, sono rimaste a guardare. Se non altro, Messi e Kakà hanno re­galato sprazzi del loro talento, il por­toghese e l’inglese invece hanno la­sciato in bocca il gusto amaro del­l’occasione perduta. Tra i fantastici quattro solo Ronaldo è andato in gol, troppo poco.

Ma altri numeri testimoniano l’eclis­si dei supercampioni. Il Castrol Index (elaborato dalla Fifa sulla base di pas­saggi, tiri e corsa per misurare in mo­do oggettivo il rendimento) vede Messi al 46° posto, Ronaldo all’89°, Rooney al 107° e Kakà addirittura al 200°. Higuain, per dire, è 15°, Villa 22°. Sempre a proposito di cifre, Milito è ancora a quota zero gol. L’uomo che ha firmato la tripletta interista è ri­masto a secco, oscurato dagli altri as­si della banda Maradona. A questo Mondiale mancano le reti “italiane”. Non solo gli azzurri hanno faticato a segnare, ma anche gli stranieri che giocano nel nostro campionato. Su 123 gol totali, solo 11 provengono dal­la serie A. Decisamente pochi, visto che ben 80 giocatori impegnati in Su­dafrica militano nelle nostre squadre. La quantità c’è, la qualità meno. L’u­nico a farsi onore è Sneijder con due gol: con Robben forma una coppia che fa sognare l’Olanda. Meglio dei “nostri” hanno fatto quelli di Liga (23 reti), Premier League (21) e Bunde­sliga (13). I bomber, insomma, abita­no altrove: non è un caso che Villa, Higuain, Luis Fabiano e Forlan gio­chino in Spagna. L’Italia si conferma Paese dedito al difensivismo: Brasile e Argentina sono dei bunker grazie a Samuel, Juan, Lucio, Maicon e Bur­disso.

Per divertirsi meglio guardare il Gha­na di Asamoah Gyan, uno dei tanti incompresi del nostro calcio (un al­tro è Tiago, resuscitato nel Portogal­lo), e soprattutto la Germania più ve­loce della storia. Una volta i panzer e­rano potenti ma lentissimi, adesso li costruiscono agili e scattanti. Merito della nazionale multietnica dipinta da Loew, signor nessuno capace di stupire. Il genio turco Ozil (21 anni) e il polacco Podolski sono i degni com­pari di Thomas Muller, che un anno fa era ancora un dilettante. Poi al Bayern è arrivato Van Gaal e il brutto anatroccolo si è trasformato in cigno: Capello ne sa qualcosa. Tra i prota­gonisti inattesi bisogna infilare pure l’Uruguay. Tabarez sta dimostrando che il Milan non aveva visto così ma­le quando lo chiamò nel 1996, salvo silurarlo poco dopo per richiamare Sacchi. Allenatore dai modi pacati e dallo sguardo malinconico, Tabarez ha saputo capitalizzare il talento di Forlan e Suarez, imbastendo alle lo­ro spalle una squadra vera e rogno­sa, capace di complicare la vita a chiunque. Dagli ottavi sono sbucati anche i cugini del Paraguay. Dopo la vittoria ai rigori sul Giappone il ct Martino piangeva a dirotto. C’è da ca­pirlo, visto che la nazionale sudame­ricana non era mai arrivata ai quarti. Altra sopresa l’ha regalata il Messico, con il suo gioco spumeggiante e i suoi giovani di belle speranze. Uno, Javier Hernandez, l’ha già preso il Manche­ster United per 7 milioni di euro. In Sudafrica ha segnato due reti: ha 22 anni e lo chiamano El Chicarito (il fa­giolino). Le squadre italiane lo han­no notato troppo tardi, come sempre più spesso accade quando c’è da comprare qualcuno capace di fare gol.

«Il calcio? Democrazia e riscatto Ma spesso è usato dai politici»

DA RIO DE JANEIRO

Che Il calcio in Brasile sia una realtà più im­portante che in qua­lunque altro Paese al mondo lo dimostrano gli innumere­voli articoli, libri e convegni dedicati al futebol verdeoro come espressione sociale e di riscatto. E lo conferma l’esi­stenza di corsi accademici co­me quello di cui è titolare, al­l’Università statale di Rio de Janeiro e all’Università Salga­do de Oliveira, il professor Maurício Murad. Murad insegna infatti Sociologia del calcio.

Perché il calcio in Brasile è così importante?

Una certa identi­ficazione con la nazionale di cal­cio esiste in qua­lunque Paese in cui questo sport è amato. Ma è vero: qui in Brasile tale i­dentificazione con la Seleção è totale. E questo per una ra­gione peculiare: le squadre di calcio in generale, e la nazio­nale in particolare, sono la rappresentazione del Paese. Non del Paese come è, ma co­me dovrebbe essere. Un Pae­se vincente – perché nessuno ha conquistato tanti titoli mondiali come il Brasile – e soprattutto un Paese demo­cratico. In nazionale giocano bianchi e neri, ricchi e pove­ri. Anzi, i grandi campioni, da Pelé a Garrincha, da Ronaldo ad Adriano, vengono dalla po­vertà o dalle favelas. Il calcio ha dimostrato ai brasiliani che anche i più svantaggiati, i ne­ri discendenti dagli schiavi, possono imporsi e avere suc­cesso. E tutto questo in ar­monia con quei bianchi di buona famiglia, alla Kaká per intenderci, che nella storia del Brasile hanno sempre avuto grandi privilegi.

Il calcio è quindi simbolo di riscatto sociale. Ma è anche la rappresentazione di un Paese socialmente giusto che, nella realtà, non esiste...

Esatto. In Brasile la disugua­glianza sociale è ancora gran­de. Ma la situazione è miglio­rata molto negli ultimi de­cenni. E io credo che il calcio abbia assai contribuito a diffondere l’idea della parità dei diritti. Il calcio ha unito bianchi e neri, ricchi e poveri come soltanto in un altro settore della cultura po­polare del Paese è successo, ovve­ro in quello mu­sicale. Certo, da qui a pensare che il calcio e la musica, da soli, possano cam­biare la menta­lità di un Paese gigantesco e complesso come il Brasile, ce ne corre...

Non ritiene però che dare tanta importanza al calcio fi­nisca con l’essere pericoloso? A volte si ha la netta sensa­zione che il brasiliano scenda in piazza solo per la naziona­le e mai per protestare con­tro ingiustizia e malgoverno.

Ciò avviene costantemente. La colpa però non è del cal­cio, ma dell’uso politico che ne viene fatto. Fin dai tempi della dittatura militare, le vit­torie della Seleção sono state usate a fini propagandistici o per distogliere l’attenzione dai problemi reali. A mio pa­rere, i brasiliani dovrebbero continuare a seguire con la stessa passione il calcio. Ma dovrebbero essere educati a non attribuirgli un’importan­za esagerata. Credo che con il tempo si arriverà a questo tra­guardo. ( G.Mil. ) - avvenire

Mondiali, Blatter si scusa per gli errori arbitrali e apre alla tecnologia

Anche il conservatore Joseph Blatter sembra poter cedere all’introduzione di maggior tecnologia in campo. Il grande capo della Fifa dopo i clamorosi errori arbitrali che hanno condizionato Germania-Inghilterra (con un gol regolarissimo non visto) e Argentina-Messico (con la prima rete di Tevez in netto fuorigioco), chiede scusa alle squadre danneggiate.

Mondiali, Blatter si scusa per gli errori arbitrali e apre alla tecnologia

Dopo le scuse, il numero uno del calcio mondiale ha poi aperto alla tecnologia in campo: «Con un sistema assolutamente accurato e non complicato sarei favorevole, ma gli attuali sistemi, con tutto il rispetto per le aziende che li hanno ideati, non danno queste garanzie».

In particolare Blatter poi fa riferimento proprio all’episodio forse più clamoroso, quello di Germania- Inghilterra. La palla calciata da Lampard sbatte sulla parte bassa della traversa e tocca il suolo dopo aver superato la linea di porta di almeno un metro. Gli inglesi e i loro tifosi esultano, ma l’arbitro non vede la palla entrare e dice che il gioco può continuare.



Il presidente della Fifa prende ad esempio proprio questo caso, per spiegare la necessità di introdurre la moviola in campo per verificare se la palla ha varcato interamente la linea o meno.

Dunque finalmente un’apertura da parte dei vertici del calcio mondiale. Ormai tutti gli sport più importanti hanno adottato “l’instant replay” per verificare le situazioni poco chiare che inevitabilmente si creano durante una partita.

Nel basket per esempio, la moviola viene utilizzata per i canestri segnati all’ultimo secondo, mente nel rugby viene usato per verificare una meta sospetta.

Davide Antonicelli - barimia

"Che delusione Italia e Francia"

Attualmente fermo per un problema al tendine d'Achille ma pronto a rientrare in pista l'8 luglio a Losanna nel meeting valido per la Diamond League, Usain Bolt fa sapere, tramite una nota diffusa dalla Iaaf, che, dopo essere stato a Boston per assistere a gara-5 delle finali Nba ("un sacco di gente sa che sono un grande appassionato di basket e calcio"), ora sta seguendo con molto interesse i Mondiali di Sudafrica 2010. "Faccio il tifo per l'Argentina - dice il giamaicano primatista mondiale dei 100 e 200 e campione olimpico e mondiale - e mi sembra che finora sia stata la squadra che ha giocato meglio. A livello individuale non c'è stato un calciatore che abbia catturato particolarmente la mia attenzione, ma credo che in questa fase ad eliminazione diretta ne vedremo delle belle".

Bolt è rimasto colpito in negativo, dall'eliminazione dell'Italia campione del mondo in carica. "La sua uscita al termine della prima fase è stata un autentico choc - dice il giamaicano, che con gli azzurri condivide lo sponsor tecnico -: non mi sarei mai aspettato che uscisse così presto, e lo stesso vale per la Francia".

La Nazionale sconfitta, specchio di un Paese che perde ovunque

di Roberto Carnerotutti

Gli Azzurri sconfitti ai Mondiali di calcio sono l’icona di un Paese perdente anche in molti altri settori». Così Nadia Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York, che continua: «Purtroppo non è soltanto il campionato di calcio quello in cui l’Italia oggi soccombe. Sono molte le “coppe del mondo” che stiamo vedendo sfumare: dall’economia alla cultura, non siamo messi affatto bene». La sconfitta della nazionale rientra dunque in un corso degli eventi che da qualche anno a questa parte – guarda caso da quando al governo c’è Lui – ha preso una piega decisamente negativa. Certo, c’è Silvio Berlusconi con il suo uso personalistico della politica, ma c’è anche un Paese profondamente diviso, una «squadra Italia» poco coesa al suo interno e poco incisiva nei confronti dell’esterno. Ne parliamo con Nadia Urbinati perché sta preparando un saggio sull’individualismo nella società moderna (che uscirà a fine anno da Laterza) e perché il suo ultimo libro, “Lo scettro senza il re” (Donzelli 2009), affrontava proprio il tema della partecipazione popolare nelle democrazie rappresentative e dell’azione indiretta dei cittadini (a livello di controllo e di stimolo) sull’azione della classe politica. Professoressa Urbinati, dunque di che cosa è sintomo la sconfitta della nazionale? «Di un’Italia che non sa scommettere sui propri talenti, su quelli più creativi e originali. Si lasciano a casa Cassano e Balotelli, perché hanno personalità, diciamo così, meno convenzionali, e si punta sul già noto, su ciò che ha funzionato in passato, ma non è detto che funzioni per il futuro. Come i fatti hanno dimostrato». L’Italia di oggi le appare così? «Purtroppo sì. Appare in questi termini soprattutto a chi la osservi dall’esterno. Un Paese fermo, immobile, timoroso. Il dinamismo berlusconiano è solo la maschera di un conservatorismo spinto. L’Italia sembra sempre più una nazione autoreferenziale. Lo vedo in queste settimane in cui mi trovo in Italia guardando i tg e leggendo i giornali: molte beghe politiche, molto gossip, pochissimo interesse per ciò che succede fuori dal nostro Paese, ma con cui dobbiamo inevitabilmente confrontarci se non vogliamo rimanere indietro». Quanto conta la fortuna (o, se vogliamo, il suo contrario) nel risultato di una squadra, che sia di calcio o di governo? Glielo chiedo perché Berlusconi non sembra essere stato molto fortunato. Tra catastrofi naturali, politiche ed economiche, a livello nazionale e planetario, da quando è al governo il Cavaliere ne sono capitate di tutti i colori... «Machiavelli nel “Principe” sosteneva che il successo dell’azione politica dipende per una metà dalla “virtù”, cioè dalle doti, dalle capacità di chi governa, e per l’altra metà dalla fortuna, cioè dal caso. Ma non è che quest’ultima componente sia qualcosa di assolutamente imponderabile: Machiavelli dice infatti che attraverso la “virtù” la “fortuna” può essere domata e indirizzata. La dote dote principale di chi governa consiste nel comprendere quali sono i problemi più urgenti, le sfide più importanti, le priorità da affrontare nell’azione politica. La politica italiana non sembra capace di cogliere le cose importanti. E così si rischia di perdere i treni che passano». A cosa si riferisce in particolare? «Faccio un solo esempio. Uno Stato che in un momento storico come questo taglia drasticamente i fondi a scuola, università e istituzioni culturali, dimostra di non aver capito nulla su come si possa uscire da un momento di crisi. Perché così facendo rinuncia al suo futuro. Tagliare in questi settori così strategici come la ricerca e l’istruzione significa tarpare le ali all’intelligenza e alla creatività, puntare su un Paese non di creatori, ma di semplici consumatori, favorire la docilità e il conformismo, più che l’originalità, il genio, il talento. Perché queste sono cose che si sviluppano là dove è accolto e valorizzato lo spirito critico. Ma questo, di segno del tutto opposto, è forse proprio il progetto consapevole di chi sta oggi al governo in Italia: gente che pensa soltanto ai propri interessi personali e non al bene della nazione che ha avuto il mandato di amministrare nel miglior modo possibile. Cosa che sfido chiunque ad affermare che stia avvenendo. Oltre al malgoverno, però, c’è anche qualcos’altro, a mio avviso è ancora più grave». Cioè? «Il totale disprezzo delle regole, comprese quelle fissate dalla Costituzione. Domina l’idea che ogni limite si possa aggirare, che tutto si possa comprare. Così si fa ministro un signore per evitargli un processo: vedi Aldo Brancher. Ma, per tornare ai mondiali, anche una battuta come quella di Bossi, per cui l’Italia si sarebbe comprata la vittoria contro la Slovacchia, è sintomatica e anche dannosa». In che senso? «È sintomatica di quella mentalità diffusa di cui parlavo, cioè dell’idea che con i soldi si possa sistemare tutto. Ed è dannosa perché rimanda all’immagine di un’Italia corrotta, in cui domina l’illegalità. Dico dannosa perché rafforza una percezione negativa del nostro Paese, che ha oggettivamente alcuni problemi di criminalità organizzata, presso i possibili investitori esteri: i quali così rimangono perplessi e sempre più riluttanti a portare i capitali dell’industria in uno Stato che non offre le minime garanzie». Ma a Bossi forse fa gioco veicolare proprio questa immagine negativa dell’Italia, visto che lui si riconosce nella fantomatica Padania... «Trovo che questa sia una cosa davvero ridicola, soprattutto quando sento parlare Bossi e altri esponenti della Lega Nord di secessione. È ridicolo che una formazione politica fomenti sentimenti di odio all’interno di una nazione. Soprattutto uno come Bossi: che coerenza ha un uomo che grida “Roma ladrona” e poi siede a Palazzo Chigi? Nessuno gli fa notare l’insensatezza, l’intrinseca contraddizione di un simile comportamento?».

unita.it

Ratzinger: calcio, paradiso in terra

il caso

Il binomio «panem et circenses» non spiega il fascino del gioco. Esso spopola perché unisce un’eco della liberazione dell’uomo dal tempo a regole ferree e intenti comuni.

In epoca di Mondiali, la sorprendente analisi del futuro Pontefice
«No all’industria del gioco, il campo insegni la disciplina»

DI GIACOMO SAMEK LODOVICI - avvenire

I l testo che qui pubblichiamo, scritto dall’allora cardinal Ratzinger, può risultare sorprendente per chi non ne conosca l’autore, in particolare i suoi detrattori. Infatti, oltre ad essere un testo antropologicamente profondo, contribuisce a far luce sulla sua personalità, perché mostra che Benedetto XVI non è un arcigno moralista o un intellettuale snob che disprezza le manifestazioni sportive, soprattutto se interessano le masse.

L’attuale Papa è tutt’altro che un uomo duro ed inflessibile, piuttosto è una persona mite e affettuosa, come palesò la sua commozione quando celebrò il funerale del suo predecessore, o come è risultato evidente in vari momenti del pontificato, per esempio nell’incontro con alcuni senza tetto o con alcune vittime degli abusi di alcuni preti. Nel contempo egli è saldo nel difendere strenuamente la dignità umana e la fede dei semplici.

Questo testo sui mondiali di calcio spiega le ragioni del fascino che essi esercitano. Lungi da moralismi (spiegare l’interesse per questa manifestazione riducendolo alla logica del

panem et circenses o solo con l’efficacia del marketing commerciale), Ratzinger svolge un’analisi della natura del gioco, e del calcio in particolare, che – spiega – tocca qualcosa di radicalmente umano. Infatti, nel calcio avviene una felice sintesi tra la libertà (che trascende le necessità della vita quotidiana ed asseconda una nostalgia per un Paradiso perduto, anticipando la dimensione di quello futuro) e le regole dell’interazione, una sintesi dove la libertà è possibile grazie alle regole (e perciò educa alla vita).

Il tema del gioco è molto affascinante ed ha suscitato l’attenzione di numerosi autori.

Esso è un’attività libera (un gioco svolto per costrizione diventa altro, per esempio un lavoro), esercitata in vista dell’interruzione della fatica del corpo, del riposo dello spirito, della sua distrazione e del suo divertimento, che inoltre esprime la creatività della persona, nonché la sua capacità di distaccarsi dalle attività pragmatiche per compiere un agire «autotelico», cioè fine a se stessa, dato che non rinvia ad uno scopo di utilità, interesse o bisogno materiale.

Risponde semmai a bisogni estetici – in quanto il gioco crea qualcosa di nuovo e di personale, di ben costruito, è una modalità dell’attività artistica–- ed al desiderio dello spirito. Quest’ultimo, infatti, anela sia all’autorealizzazione del sé, e nel gioco si cerca di dare appunto il meglio di se stessi in quella sfera, sia ad una dimensione dell’esistenza, di cui il gioco è anticipazione, in cui la regola non è più minimamente in antitesi con la spontaneità: perciò il bambino – nella cui vita la dimensione del gioco è costitutiva – è insieme origine dell’esistenza umana e figura di Tempi Nuovi, ultraterreni.

In effetti, se si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla, perciò 'il giocatore che si sottrae alle regole è un guastafeste» (come ha sottolineato Johan Huizinga, uno storico che ha investigato acutamente il fenomeno ludico nel suo Homo ludens). Egli guasta la malìa di un modo d’essere che è festa, pur essendovi delle regole, e che è prefigurazione della Festa.

Ma è un guastafeste anche chi non prende sul serio il gioco. E questo ci dice che nel gioco c’è non soltanto gioiosità, piacere e leggerezza, ma anche la serietà (che è diversa dalla seriosità), così palese nell’impegno che in esso riversano i bambini, ed allude alla serietà-gioiosa della beatitudine eterna.

Quest’ultima è superamento di tutto ciò che è pesante, doloroso e oppressivo nel quotidiano, è il raggiungimento del proprio compimento, la questione più importante dell’uomo.

la riflessione

«Lo sport è evasione dalla serietà schiavizzante del quotidiano per la serietà del bello»

DI JOSEPH RATZINGER

R egolarmente ogni quattro anni il campionato mondiale di calcio si di­mostra un evento che affascina cen­tinaia di milioni di persone. Nessun altro av­venimento sulla terra può avere un effetto altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca un qualche e­lemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco. Il pessimista dirà che è come nell’antica Roma. La parola d’ordine della massa era: panem et circenses , pane e circo. Il pane e il gioco sarebbero dunque i contenuti vitali di una società decadente che non ha altri obiettivi più elevati. Ma se anche si accettasse questa spiegazione, es­sa non sarebbe assolutamente sufficiente. Ci si dovrebbe chiedere ancora: in cosa risie­de il fascino di un gioco che assume la stes­sa importanza del pane? Si potrebbe ri­spondere, facendo ancora riferimento alla Roma antica, che la richiesta di pane e gio­co era in realtà l’espressione del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza affanni e di una libertà appagata. Per­ché è questo che s’intende in ultima anali­si con il gioco: un’azione completamente li­bera, senza scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le forze dell’uomo. In questo senso il gioco sa­rebbe una sorta di tentato ritorno al para­diso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di gua­dagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bel­lo.

Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma, soprattutto nel bambino, ha anche il carat­tere di esercitazione alla vita. Simboleggia la vita stessa e la anti­cipa, per così dire, in una maniera libera­mente strutturata. A me sembra che il fa­scino del calcio stia essenzialmente nel fatto che esso colle­ga questi due aspetti in una forma molto convincente. Costringe l’uomo a imporsi u­na disciplina in modo da ottenere con l’al­lenamento, la padronanza di sé; con la pa­dronanza, la superiorità e con la superio­rità, la libertà. Inoltre gli insegna soprattut­to un disciplinato affiatamento: in quanto gioco di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i giocato­ri con un obiettivo comune; il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel suc­cesso e nell’insuccesso del tutto. Inoltre, in­segna una leale rivalità, dove la regola co­mune, cui ci si assoggetta, rimane l’ele­mento che lega e unisce nell’opposizione. Infine, la libertà del gioco, se questo si svol­ge correttamente, annulla la serietà della ri­valità. Assistendovi, gli uomini si identifica­no con il gioco e con i giocatori, e parteci­pano quindi personalmente all’affiatamen­to e alla rivalità, alla serietà e alla libertà: i gio­catori diventano un simbolo della propria vi­ta; il che si ripercuote a sua volta su di loro: essi sanno che gli uomini rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Natu­ralmente tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gio­co da gioco a industria, e crea un mondo fit­tizio di dimensioni spaventose.

Ma neppure questo mondo fittizio potreb­be esistere senza l’aspetto positivo che è al­la base del gioco: l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del pa­radiso perduto. In entrambi i casi si tratta però di cercare una disciplina della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e l’intesa nell’obbedienza alla rego­la. Forse, riflettendo su queste cose, po­tremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evi dente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della di­sciplina, che insegna l’affiatamento e la ri­valità leale, l’indipendenza del successo e­steriore e dell’arbitrio, e diviene appunto, così, veramente libera. Il gioco, una vita. Se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo appassionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento.