Sport Land News: libro
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Il calcio italiano da sempre sopravvive tra scandali, zone d’ombra e troppo spesso è vittima dell’omertà

Ed è stata questa stessa omertà ad infittire il mistero del calciatore che venne ucciso verso sera: il 27enne Donato “Denis” Bergamini, centrocampista del Cosenza, trovato morto il 18 novembre 1989, al chilometro 401 della Statale Jonica, all’altezza di Roseto Capo Spulico. La prima indagine della procura di Castrovillari, che faceva acqua da tutte la parti, venne chiusa in fretta e furia e parlava di suicidio del calciatore. Una verità confutata un decennio più tardi da un libro-inchiesta scritto dall’ex bomber caduto nel fango del dio pallone, Carlo Petrini, che già nel titolo parlava di Bergamini Il calciatore suicidato (Kaos Edizioni). 

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Il calciatore suicidato TitoloIl calciatore suicidato
AutorePetrini Carlo
Prezzo
Sconto 15%
€ 11,42
(Prezzo di copertina € 13,43 Risparmio € 2,01)
Dati2001, 148 p., ill.
EditoreKaos   



In quelle pagine, Petrini sosteneva convinto la tesi dell’«omicidio», seguendo piste scomode che rimandavano al giro del calcioscommesse e a quello del traffico di droga che sarebbe stata trasportata durante le trasferte del Cosenza e al quale Bergamini si sarebbe opposto. Piste forse distanti dalla presunta verità che sta affiorando in questi ultimi mesi. La riapertura dell’indagine, nel giugno del 2011, da parte della Procura di Castrovillari segue infatti la via dell’omicidio volontario, a seguito del memoriale depositato dall’avvocato Eugenio Gallerani, il nuovo legale scelto dalla famiglia Bergamini. Una famiglia che nella casa ferrarese di Boccaleone, da 24 anni attende di «conoscere chi e perché ha ucciso il nostro Denis». E non è un caso, o così ci piace pensare, che proprio domani, 18 novembre, il pm di Castrovillari Franco Giacomantonio e la sostituta Maria Grazia Anastasia, abbiano convocato i due indagati per la morte di Bergamini: l’ex fidanzata Isabella Internò, indagata per concorso in omicidio volontario e il camionista Raffaele Pisano, indagato per favoreggiamento e false informazioni al pm. Loro due erano presenti sul luogo in cui è stato ritrovato Denis già cadavere e dalle loro versioni, contraddittorie e assolutamente non credibili, la domanda che si pone la famiglia del calciatore: «Come è stato possibile che per oltre vent’anni sia stata accreditata la versione del suicidio?».

Chi ha conosciuto bene Bergamini, sa che era un ragazzo solare, innamorato della vita e del suo mestiere di calciatore. «Quando venne ucciso, era all’apice della carriera: aveva un contratto da 180-200 milioni di lire a stagione. E proprio in quei giorni si compiaceva con amici e famigliari di quanto fosse fortunato, per il fatto che lo pagavano così lautamente per quella che in fondo era stata la sua passione fin da bambino», spiega l’avvocato Gallerani. Il legale, assieme ai genitori di Denis è sceso a Cosenza, dove ieri sera dopo la partita della formazione locale contro il Chieti  - campionato di Seconda divisione - i tifosi (che hanno creato il sito www.denisbergamini.com), 400 ragazzi della scuola calcio e parte della città, hanno preso parte a una fiaccolata in memoria di Bergamini.

«Il giorno dei suoi funerali c’erano più di 20mila persone...», ricordano commossi papà Domizio e la sorella Donata. «Denis non soffriva di alcun tipo di depressione, quella mattina era uscita un’intervista su La Gazzetta del Sud in cui incitava i compagni a tornare alla vittoria contro il Messina - dice Donata - . Mio fratello sarebbe potuto rimanere comodamente a Cosenza anche la stagione successiva o magari accettare l’offerta di squadre di Serie A: lo avevano richiesto il Parma e la Fiorentina di Roberto Baggio che in quel periodo era allenata dal suo ex allenatore Bruno Giorgi che lo stimava tantissimo. «Ma qualcuno quaggiù mi vuole male», avrebbe confidato Denis, i giorni precedenti la sua morte, alla nuova fidanzata. Una 22enne romagnola, con la quale condivideva anche la passione per lo sport: giocava a calcio nella squadra femminile del Russi, e alla quale teneva molto. Ma chi, per l’opinione pubblica cosentina, voleva essere ancora accreditata come la fidanzata ufficiale di Bergamini, era Isabella. Ragazza conosciuta nell’85, quando non aveva ancora 16 anni e che dopo la rottura del fidanzamento alla moglie di un suo compagno di squadra si era lasciata sfuggire: «Piuttosto che sapere Denis con un’altra, preferirei vederlo morto...». Oggi Isabella è sposata con Luciano Conte, poliziotto: «Un amico di famiglia che mi conforta», dichiarò cinque giorni dopo la morte di Denis. Una morte avvolta in un alone nero, a partire dall’ultima telefonata che Bergamini ricevette alle 15.30 di quell’ultimo pomeriggio in ritiro con la squadra. «Con lui c’era il compagno di squadra e coinquilino Michele Padovano (poi arrestato nel 2006 per traffico internazionale di droga e condannato in primo grado) che dichiarò di aver visto Denis «molto preoccupato appena riattaccò il telefono». Telefonata che il pm di allora non si premurò neppure di controllare sul tabulato per risalire al numero e quindi non venne messa neppure agli atti. Agli atti non risultarono neppure le ipotetiche “tre persone” che avrebbero prelevato Bergamini al cinema dove si era recato, come quasi ogni vigilia di partita, con tutta la squadra. Denis alle 17.30 venne poi fermato a bordo della sua Maserati bianca a un posto di blocco dal brigadiere Francesco Barbuscio (deceduto), ma anche su questo controllo non sono state fatte le dovute verifiche. Due ore dopo, Bergamini, secondo i due unici testimoni e ora indagati, si sarebbe gettato sotto il tir guidato dal camionista Raffaele Pisano. «Nell’udienza dibattimentale del 1991 - spiega l’avvocato Gallerani - , Pisano disse di aver frenato all’ultimo momento e di aver visto Bergamini in piedi, mentre il corpo del calciatore, secondo la perizia medico legale effettuata dal prof. Francesco Maria Avato, era già disteso in terra».

Fu soltanto una messinscena quella del suicidio e la conferma più evidente è che Bergamini non aveva neppure un osso fratturato, quindi da escludere categoricamente la morte per schiacciamento. «Difficile rimanere illesi quando ti passa sopra un camion che trasportava 138 quintali di mandarini», ripeteva Carlo Petrini. «Dalla foto scattata dai carabinieri si intravede che il portafoglio di Denis era perfettamente integro e lo tiene ancora nella tasca posteriore - racconta papà Domizio -. Orologio, catenina, scarpe e vestiti in perfetto ordine. Anche se i vestiti non sappiamo perché, ma non vennero più ritrovati. Ci dissero che erano stati bruciati all’ospedale di Trebisacce». Uno dei tanti, troppi dettagli misteriosi di questo dramma (sul quale pochi hanno indagato a fondo come invece ha continuato a fare la trasmissione di Raitre “Chi l’ha visto”). Come misteriose sono state altre due tragiche fatalità, successive e forse legate al caso Bergamini: le morti dei due maganizzieri del Cosenza, Alfredino Rende e Domenico Corrente, che avevano confidato ai genitori del calciatore di sapere qualcosa riguardo alla morte del loro figlio. Un figlio per il quale tutti, a cominciare dal popolo degli stadi, ora chiedono di sapere la “verità”.

Massimiliano Castellani - avvenire.it

Letteratura sportiva e partite alla radio

Comunicato Stampa
È il pallone che vola all’altezza della fantasia oppure è l’immaginazione che, grazie alla radio, prende il sopravvento? Prova a spiegarcelo con garbo, profondità e competenza una delle voci professioniste più note dello sport raccontato a chi in quel momento non può vederlo.

Scaramuzzino Giovanni - Come quando ascoltiamo le partite alla radio. Storie di... solo online da qui sconto 15%

Come quando ascoltiamo le partite alla radio. Storie di sport minuto per minuto TitoloCome quando ascoltiamo le partite alla radio. Storie di sport minuto per minuto
AutoreScaramuzzino Giovanni
Prezzo
Sconto 15%
€ 10,20
(Prezzo di copertina € 12,00 Risparmio € 1,80)
Dati2010, XII-212 p., brossura
EditoreSEI  (collana Sestante)
Nel libro “Come quando ascoltiamo le partite alla radio. Storie di sport minuto per minuto” (SEI, Torino, pp. 210, Euro 12, scontato su Internet) Giovanni Scaramuzzino - da tempo nella squadra di “Tutto il calcio minuto per minuto” di Radio Rai - si mette alla prova come scrittore e va addirittura oltre, sorprendendoci nei panni di romanziere.
Dopo l’esordio con il particolare e avvincente “Fino all’ultimo chilometro. Il Giro d’Italia da una motocicletta” (Geo Edizioni), dedicato al grande ciclismo, qui Scaramuzzino spiazza l’ascoltatore, prima ancora del lettore, dando vita a una sorta di opera radiofonico-cartacea in più atti. È come se i protagonisti vivessero contemporaneamente le loro vicende e irrompessero sulla scena incontrandosi, sovrapponendosi, interrompendosi, completandosi e realizzandosi compiutamente proprio come il racconto in diretta di più partite alla radio.
Particolarmente indovinata la scelta di alcune figure portanti dell’opera: ecco un segretario scolastico (a suo tempo ammiratore di un giovane Nevio Scala, allenatore in rampa di lancio) che, grazie a una sciarpa a lungo tenuta riposta in un cassetto, riscopre, rivive e rielabora ricordi che si sublimano in un incontro che forse ha poco di casuale.
E poi il rapporto controverso, ma sempre speciale, tra genitore e figlio adolescente: entrambi sportivi, entrambi tifosi di calcio. Uno del Livorno; l’altro, il più giovane, nientemeno che del Bastìa. Una storia delicata, suggestiva che si snoda tra le impalpabili onde radio e quelle ben più visibili del Mar Tirreno sul traghetto tra Toscana e Corsica per assistere dal vivo alle partite di campionato dei “turchini”.
Ma probabilmente il personaggio più intenso, controverso e drammaticamente più vero è Fabio, portiere di successo, che in una serata nebbiosa perde la strada di casa alla guida del suo SUV “rischiando” - invano, purtroppo - di ritrovare quei valori di uomo che un tempo, grazie anche a una fondamentale presenza femminile, l’avevano accompagnato, saldi e sicuri, prima di essere sacrificati sul volatile altare dell’effimero.
Ecco, resta invece qualcosa di palpabile, di solido e concreto, dopo essere arrivati all’ultima pagina di quest’opera che pretende di non avere pretese, ma che sa raccontare con sensibilità e umiltà storie che in fondo sono un po’ anche le nostre. “Verba volant”, si dice, e a maggior ragione ciò vale per un radiocronista che con la voce deve saper correre dietro alla palla, alle volate, alle stoccate, al passante di rovescio, al tiro libero, al salto in lungo, al volteggio, sintetizzando l’azione al momento.
Ora però il merito maggiore di Scaramuzzino è quello di essere riuscito, scrivendo, a fermare l’attimo e a fermare anche noi. Una sosta che ci “costringe” a riflettere, ma non una frenata brusca: un dolce rallentamento dopo che l’autore ha avuto l’accortezza di bussare e chiedere permesso.
“Come quando ascoltiamo le partite alla radio. Storie di sport minuto per minuto” di Giovanni Scaramuzzino, SEI,  pp. 210. Euro 12; scontato 15 % su Internet >>>> da qui .

La serie Gol! è il best seller

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Luigi Garlando fa parte della squadra di cronisti del più rappresentativo dei quotidiani sportivi italiani: La Gazzetta dello Sport. Cura la rubrica che fu di Candido Cannavò; con Piemme ha pubblicato la fortunatissima serie Gol!, in cui racconta le vicende della squadra di calcio delle Cipolline: un riuscitissimo best seller in tutto il mondo. Ora torna in libreria con un’avventura che sa molto delle sue esperienze di vita, portando con sé un pizzico della suggestione provata tra le mitiche pagine rosa del suo giornale. Ciponews è infatti il mensile delle Cipolline. Dante, Tommi, Sara, Lara, tutti i ragazzi della squadra sono uniti in una nuova e straordinaria avventura: far parte della redazione di una rivista. Questo nuovo lavoro di Garlando è l’occasione per i più piccoli di  crescere conoscendo uno dei valori fondamentali della società, il coraggio e il valore della libertà di stampa.
Hai vinto molti premi, solo per citarne alcuni de La vita è una bomba il Premio Il Battello a Vapore, il Premio Selezione Bancarellino, e il Premio Bruno Roghi; ce n’è uno a cui resti legato particolarmente?Il primo, Il Premio Il Battello a Vapore, perché mi ha fatto diventare scrittore. Si trattava di un concorso per racconti inediti a tema libero e il premio consisteva appunto nella pubblicazione. Così è nato il mio primo libro, edito dalla Piemme nel 2001: La vita è una bomba.
Qual è il complimento più bello che ti ha fatto uno dei tuoi giovani fan?Il più divertente me lo ha scritto un bambino: “Luigi, sei il più bravo scrittore del mondo. Altro che quel Manzoni che legge sempre mia sorella…”. Ma i complimenti preferiti sono quelli di bambini che mi confessano di non avere mai amato la lettura e di essersi appassionati alle Cipolline. Avvicinare un bambino al meraviglioso mondo della lettura è una gratificazione unica.
Da dove è nato il nome “Cipolline”?
Avendo creato la figura di Gaston Champignon, cuoco-allenatore, mi serviva per la squadra un nome che avesse a che fare con la cucina. Riflettendoci su, mi è tornata in menta la storia del piccolo Diego Armando Maradona che giocava in una squadra che si chiamava le Cipolline. O, meglio, le Cipolline era il nome della categoria dei piccoli calciatori argentini, così come noi in Italia abbiamo i Pulcini. Le Cipolline di Maradona diventarono una leggenda, un vero orgoglio nazionale perché quei bambini giocarono centinaia di partite senza perdere mai. Il nome suonava divertente e aveva a che fare con la cucina: faceva al caso mio. Perciò l’ho preso in prestito da Maradona. Anche se Gaston Champignon non insegnerebbe mai ai suoi ragazzi a ingannare l’arbitro con un gol di mano…”
Come ti è venuta l’idea di fare una collana di libri sul calcio?Ad essere sincero, l’idea è venuta alla Piemme, la mia casa editrice, dopo il successo di un libro che avevo scritto sul calcio: Da grande farò il calciatore. Non accolsi con entusiasmo la proposta, perché di calcio mi occupavo già tutti i giorni nella mia attività di giornalista sportivo. Nei libri per ragazzi avevo programmato di trattare altri argomenti. Poi però mi sono convinto della necessità di mettere in campo una squadra simpatica, competitiva, che fosse anche un esempio di lealtà sportiva. Per esperienza diretta, so che anche il calcio giovanile è ammalato di esasperazione: ex giocatori frustrati che diventano allenatori per vincere a tutti i costi attraverso una squadra di ragazzi ciò che non sono riusciti a vincere da soli; genitori che pretendono di avere in casa il prossimo Pallone d’Oro e magari si azzuffano o insultano in tribuna… Le Cipolline sono scese in campo anche per questo, per insegnare che ‘chi si diverte, non perde mai’, che l’amicizia conta più della classifica.
Nei tuoi ultimi libri ci ha colpito molto il riferimento a Giovanni Falcone, come si coniuga la passione civile con quella sportiva e quanto è importante per te insegnarlo ai ragazzi?A Giovanni Falcone e alla sua straordinaria lezione ho dedicato Per questo mi chiamo Giovanni, che considero il mio libro più importante. Falcone amava i ragazzi e lo sport. Andava spesso a parlare nelle scuole, convinto che la lotta alla mafia dovesse cominciare già da bambini, educandoli al rispetto delle regole e delle istituzioni. Il magistrato palermitano considerava lo sport una palestra privilegiata dove allenare i muscoli  della legalità, perché lo sport insegna a rispettare il regolamento e l’avversario. Falcone praticava canottaggio, nuoto, ping pong e andava spesso allo stadio a seguire il Palermo. Era uno sportivo vero. Perciò, quando ho portato le Cipolline in vacanza in Sicilia, mi è venuto naturale condurle al famoso ‘albero Falcone’ e raccontare loro la straordinaria lezione di coraggio e di legalità del magistrato ucciso a Capaci. Le Cipolline praticano lo sport come sarebbe piaciuto a Falcone: con passione e lealtà.

Il corridore. Storia di una vita riscattata dallo sport

Si allena da solo e a 58 anni è diventato campione del mondo. Limpido come Forrest Gump, Marco Olmo è l'altra faccia dello sport: pulita e controcorrente. E «Il corridore» (Ponte alle Grazie, pag. 140, 12,50 euro) è la storia della sua vita riscattata dalla corsa, vissuta come un espediente per bluffare il tempo. Scritta a quattro mani insieme a Gaia de Pascale, racconta le vicende di un uomo che è stato boscaiolo, camionista, operaio in una cementeria nel piemontese. Passato dalla fabbrica alle vette del mondo, fino a conquistarne la vetta. Vincendo nell'Ultra Trail. Una disciplina estrema che significa centinaia di chilometri di corsa sui terreni e nei climi più impervi, sulle Alpi o nei deserti. Marco Olmo l'ha scelto come sport all'età di quarant'anni. Iniziando ad affrontare competizioni estreme come la Marathon des Sables, 230 km in assoluta autosufficienza alimentare e condizioni climatiche proibitive nel deserto marocchino, la Desert Cup (168 km nel deserto giordano), la Desert Marathon in Libia e la Maratona dei 10 Comandamenti (156 km sul Monte Sinai), raccogliendo un successo dopo l'altro. A 58 anni è diventato Campione del Mondo. Ha vinto l'Ultra Trail du Mont Blanc, la gara di resistenza più importante e dura al mondo. E non ha vinto una volta sola, ma ben due. Di fila: collezionando 167 km attraverso Francia, Italia e Svizzera, oltre 20 ore di corsa ininterrotta attorno al massiccio più alto d'Europa. Senza uno sponsor. Senza personal trainer ma solo con la sua tenacia. Venendo dal «mondo dei vinti», dal mondo delle montagne sconfitto dalla civiltà industriale. La sua traiettoria è ben di più di un eccezionale exploit sportivo. È un'occasione per misurarsi, per prendere coscienza della sua forza. Ora Marco Olmo si guarda allo specchio, conta le sue rughe e si volta indietro. Si vede «un vecchio», magro. «Mi volto e le mie orme sono già sparite. Ma io so di esserci stato. So di aver vinto la battaglia più grande, quella contro me stesso. Di essermi riscattato per tutte le cose perdute, o lasciate andare via», dice Olmo che conosce il suo corpo e sa dove lo può portare. Lontano. 
iltempo.it

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Un pallone salvò Rino dal lager

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Nella giornata della memoria, c’è una storia, sicuramente poco nota ai tifosi degli stadi “smemorati” di oggi, che va raccontata. È la storia di Rino Mario Pagotto, e a riportarla alla luce è stato Giuliano Musi (giornalista del Corriere dello Sport Stadio) nel suo libro Pagotto. Un calcio anche alla morte (Minerva Edizioni).

Rino non era un ebreo, ma dai campi di calcio della Serie A, un giorno si ritrovò a vivere l’esperienza drammatica dei campi di concentramento nazisti. I primi campi che aveva conosciuto e calcato, erano quelli dove lavoravano come contadini i suoi genitori e i fratelli, a Fontanafredda (Udine), il paese dove era nato nel 1911. Poi, trasferitosi con la famiglia a Pordenone, nelle ore rubate alla bottega di ciabattino c’era stato il campetto dell’Aurora, la squadra della parrocchia. «Non avevo mai pensato di entrare su quel campo per farne una ragione di vita», raccontò ai figli Piero e Patrizia (che hanno collaborato alla stesura del libro).

E invece come nelle più romantiche delle storie di cuoio, Rino passò al Pordenone e da lì quel terzino granitico e dall’anticipo bruciante, andò a provare per il grande Bologna. Ad attenderlo, il tecnico ungherese Árpád Weisz che squadrò quel ragazzone di belle speranze e prima del test gli intimò: «Non abbia paura di sbagliare, è meglio osare che trattenersi».

Pagotto osò e riuscì ad entrare nella rosa del Bologna riserve. L’infortunio del difensore Gasperi gli aprì le porte della prima squadra: esordio in Serie A, con tanto di vittoria, contro il Genoa, il 1° novembre del 1936. Fu tra i protagonisti dello scudetto e l’anno dopo anche della conquista del Trofeo dell’Esposizione di Parigi. La lezione di calcio impartita al Chelsea, sconfitto 4-1 in finale, fece del Bologna la prima squadra italiana a superare i maestri inglesi in un torneo internazionale.

Da quel momento Pagotto divenne uno degli eroi dello «squadrone che tremare il mondo fa». Il Bologna alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 era passato sotto la direzione del tecnico Felsner, l’ebreo Weisz era dovuto scappare dall’Italia, per poi finire i suoi giorni a Auschwitz: ucciso dal boia nazista assieme alla moglie Elena e i figli Roberto (12 anni) e Clara (8). Pagotto con Fiorini e poi con Ricci, intanto alzava il muro della difesa bolognese e il tenente degli alpini Vittorio Pozzo lo arruolò in Nazionale per la sfida contro la Romania. Due anni più tardi quel “battesimo azzurro”, stop al campionato: il suo destino e quello di tanti calciatori fu quello di rispondere alla chiamata della patria.

«Venni richiamato dagli alpini il 16 ottobre del 1942 e fatto prigioniero dalle SS l’8 settembre del ’43», ricordava amaro Rino che si ritrovò prigioniero nel campo di Hohenstein (Prussia dell’Est). «Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all’interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo». Ricordi tragici del prigioniero “DA8659” («nemmeno cento numeri più dello dello scrittore Rigono Stern»), che da Hohenstein venne trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia.

Qui Pagotto scambiò qualche frase con «i prigionieri dalle divise a righe», ebrei che come lui non speravano più di tornare liberi. L’unico scampolo di libertà lo ritrovò nell’ultima tappa della prigionia, a Cernauti, dove rivide ragazzi e ragazze ebrei conosciuti a Hohenstein e Byalistok, ma soprattutto il pallone. Pagotto si trasformò in allenatore-giocatore e mise in piedi una squadra fortissima che ben presto divenne celebre come “Quelli di Cernauti”. La formazione con la quale a Sluzk (vicino Minsk) «osò» sfidare la squadra dell’Armata Rossa, ridicolizzandola con un quasi cappotto, 6-2. Una gara da “fuga per la vittoria” che anticipava il tanto agognato ritorno a casa («il 18 ottobre del 1945») per abbracciare la moglie Giuseppina e il suo Bologna. Ma fino all’ultimo (è morto nell’agosto del ’92) di tutte le sfide disputate, Rino ricordava quelle leviane dei “giorni in cui l’uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini”: «Noi nei lager ad ogni partita ci giocavamo la vita...».

Massimiliano Castellani - avvenire.it

L' atlante dei mondiali. Trentadue viaggi per sapere tutto delle nazioni e delle nazionali protagoniste di Sudafrica 2010

I Mondiali di calcio sono una grande occasione, per appassionarsi ma anche per conoscere. Soprattutto quando si disputano per la prima volta nel continente africano e se l'Italia ci arriva da campione in carica compiendo cent'anni di vita. Questo manuale racconta le nazioni e le nazionali come non le avete mai conosciute: 32 viaggi sorprendenti per scoprire quello che le guide non dicono. E un avvincente diario per seguire partita per partita l'appuntamento in Sudafrica, lo spettacolo più coinvolgente del pianeta. La sfida è doppia: offrire ai malati di calcio una lettura più profonda attraverso i cinque continenti e consegnare a chi si avvicina a questo sport solo ogni quattro anni una chiave per capirne meglio la magia senza confini.

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