37634 BRASILIA-ADISTA. Iniziato il conto alla rovescia per il
campionato mondiale di calcio in Brasile (la partita d’apertura,
Brasile-Croazia, si giocherà all’Arena Corinthians di São Paulo il 12
giugno), il governo di Dilma Rousseff sta correndo ai ripari per
contrastare l’immagine negativa prodotta tanto dai ritardi nella
costruzione degli impianti e delle infrastrutture, quanto soprattutto
dalle modalità profondamente antisociali con cui tali opere sono state
realizzate e dai costi esorbitanti del doppio appuntamento sportivo (i
mondiali del 2014 e le Olimpiadi del 2016), oggetto di proteste
culminate inaspettatamente e clamorosamente nel giugno del 2013 (v.
Adista n. 25/13). Una sgraditissima sorpresa per il governo, che, certo
di solleticare l’orgoglio nazionale sul terreno della distrazione più
cara ai brasiliani (quella calcistica), si attendeva un grande ritorno
in termini di prestigio e deve al contrario fronteggiare un calo di
popolarità proprio nell’anno delle elezioni presidenziali (previste per
il prossimo ottobre).
Nel tentativo di invertire il trend, il governo ha incaricato il ministro della Segreteria Generale della presidenza della Repubblica, Gilberto Carvalho, di stabilire, in realtà con grande ritardo, un dialogo con la società, impegnandosi a smontare, a suo dire, la “disinformazione” imperante attorno all’evento. Così, mentre il ministro dello Sport Aldo Rebelo va in giro a inaugurare impianti che in vari casi, a cominciare dallo stadio di Manaus, resteranno praticamente inutilizzati dopo la Coppa, Carvalho è impegnato a visitare le 12 città che ospiteranno le partite, con l’obiettivo di mobilitare le organizzazioni sociali in difesa dei mondiali. Un compito assai arduo: il 29 aprile, in un incontro a Rio de Janeiro, il ministro è stato più volte interrotto e pesantemente fischiato, come quando, a una donna minacciata da una delle tante rimozioni legate alla costruzione delle opere, ha pensato bene di dire: «Esca un po’ dal suo orticello, pensi al Paese» (O Estado de S. Paulo, 29/04).
Cose della vita
Non giovano sicuramente al governo le polemiche sui ritardi nell’esecuzione delle opere, sebbene, come spiega Tuto Beat Wehrle, responsabile in Brasile del programma “A chance to play” (un’iniziativa solidale di sostegno ai bambini e adolescenti delle favelas di São Paulo promossa dalla sezione tedesca di Terre des hommes), in un’intervista pubblicata su Argenpress.info il 25 aprile, non si tratti di una questione di inefficienza, bensì di «un freddo calcolo economico» da parte delle imprese private, le quali, quanto più grave è il ritardo, tanto più possono avanzare pretese rispetto a «pagamenti aggiuntivi», con il risultato che le spese per gli impianti, stimate inizialmente attorno ai 2,4 miliardi di reais, hanno già oltrepassato gli 8 miliardi: un investimento superiore a quelli dei mondiali in Germania e in Sudafrica messi insieme. E considerando che la Coppa del Mondo costerà oltre 30 miliardi di reais (10 miliardi di euro), la cifra più alta nell’intera storia dei mondiali di calcio, non c’è da stupirsi che, stando a un recente sondaggio dell’Istituto Datafolha, il 55% dei brasiliani sia convinto che i mondiali produrranno più costi che vantaggi. Ancor più grave, tuttavia, è che, per ultimare in tempo utile la costruzione degli impianti, le imprese impongano agli operai estenuanti giornate di lavoro, fino a 18 ore, aumentando il rischio di incidenti anche mortali. Nove lavoratori hanno già perso la vita nei cantieri (sette in seguito a incidenti e due per infarto), l’ultimo dei quali, il 23enne Fábio Hamilton da Cruz, è morto cadendo da un’altezza di oltre 8 metri, il 29 marzo, mentre lavorava all’installazione delle tribune provvisorie dello stadio Itaquerão (Arena Corinthians), a São Paulo. «Cose della vita», è stato il micidiale commento di Pelè: un incidente che «può succedere», qualcosa di «normale».
Vittime della “pacificazione”
Neppure giovano al governo le proteste relative alla questione della sicurezza e del controllo del territorio, soprattutto rispetto all’azione di “pacificazione” delle favelas, culminata agli inizi di aprile con l’occupazione da parte dell’esercito del Complesso della Maré, la più grande favela di Rio de Janeiro (costituita da 17 comunità per un totale di 130mila persone), per introdurvi, come già avvenuto altrove, un’Unità di Polizia Pacificatrice (Upp).
«Per quanto possa valutarsi positivamente – scrive Beat Wehrle – la strategia diretta a sottrarre territori al crimine organizzato, il sollievo delle famiglie che abitano nelle favelas “pacificate” ha ben presto ceduto il passo alla sofferenza dinanzi all’azione ugualmente arbitraria, repressiva e violenta delle polizie militari». In realtà, come ha commentato il sociologo Cândido Grzybowski (Canal Ibase, 7/4), l’attuale politica di sicurezza è rivolta a proteggere la città dalle favelas e dai loro abitanti piuttosto che garantire a tutti il diritto alla sicurezza: «La polizia, quando non è connivente con la criminalità per trarne vantaggi, ha sempre guardato al territorio delle favelas come a uno spazio ostile semplicemente da reprimere». È assai significativo, ha sottolineato Grzybowski, che, in relazione al Complesso della Maré, si sia parlato esplicitamente di “occupazione” – e davvero di questo si è trattato, «con blindati, armi pesanti, elicotteri e un intero arsenale di guerra» –, anziché, per esempio, di «“liberazione” da trafficanti e milizie armate». E altrettanto significativo è il fatto che non si sia nascosta la durata di tale “occupazione” militare, che andrà avanti solo fino al termine della Coppa del mondo. Non c’è allora da stupirsi che nella favela di Pavão-Pavãozinho, tra i due quartieri più turistici di Rio de Janeiro, Copacabana e Ipanema, sia esplosa una vera rivolta – con tanto di incendi, barricate e sparatorie, e con il bilancio di almeno una vittima – in seguito alla morte in circostanze non chiare di un ballerino di un varietà televisivo, Douglas Rafael da Silva Pereira, durante una perquisizione della polizia, la quale, pare, avrebbe scambiato il giovane per un malvivente, pestandolo a sangue. Non sarebbe certo una novità: secondo un recente rapporto del Forum brasiliano di sicurezza pubblica, addirittura cinque persone al giorno muoiono in conseguenza di azioni da parte della polizia (1.890 le vittime solo nel 2012).
A esprimere critiche è anche la Conferenza episcopale brasiliana, che, in un messaggio emesso lo scorso marzo, esprimendo solidarietà a «quanti, a causa delle opere legate alla Coppa del mondo, sono stati feriti nella propria dignità e colpiti dal dolore della perdita di persone care», ritiene inammissibile «che il mondiale finisca per aggravare le disuguaglianze urbane e la devastazione ambientale, giustificando l’adozione progressiva di uno stato di eccezione, mediante decreti, misure provvisorie e risoluzioni».
Se è difficile prevedere l’impatto delle rivolte delle favelas sullo svolgimento dei mondiali, è certo, comunque, che la mobilitazione legata allo slogan “Não vai ter Copa” (la Coppa del mondo non si farà) non ha più raggiunto i livelli di partecipazione di massa che hanno caratterizzato le manifestazioni dello scorso anno. E in ogni caso sono in tanti a pensare che le proteste debbano precedere (e seguire) i mondiali, ma non accompagnarli: «Non siamo contro la Coppa del mondo – ha dichiarato per esempio João Pedro Stedile, uno dei leader più autorevoli del più importante movimento sociale del Brasile, quello dei Senza Terra –: il popolo brasiliano vuole assistere ai mondiali. Per quanto i biglietti siano molto cari e i profitti andranno tutti alla Fifa, le persone vorranno seguirli da casa, in televisione». Di conseguenza, «il peggior momento per le manifestazioni è proprio durante i mondiali. Si tratterebbe di un errore da parte dei giovani: le mobilitazioni devono essere fatte prima». (claudia fanti)
Nel tentativo di invertire il trend, il governo ha incaricato il ministro della Segreteria Generale della presidenza della Repubblica, Gilberto Carvalho, di stabilire, in realtà con grande ritardo, un dialogo con la società, impegnandosi a smontare, a suo dire, la “disinformazione” imperante attorno all’evento. Così, mentre il ministro dello Sport Aldo Rebelo va in giro a inaugurare impianti che in vari casi, a cominciare dallo stadio di Manaus, resteranno praticamente inutilizzati dopo la Coppa, Carvalho è impegnato a visitare le 12 città che ospiteranno le partite, con l’obiettivo di mobilitare le organizzazioni sociali in difesa dei mondiali. Un compito assai arduo: il 29 aprile, in un incontro a Rio de Janeiro, il ministro è stato più volte interrotto e pesantemente fischiato, come quando, a una donna minacciata da una delle tante rimozioni legate alla costruzione delle opere, ha pensato bene di dire: «Esca un po’ dal suo orticello, pensi al Paese» (O Estado de S. Paulo, 29/04).
Cose della vita
Non giovano sicuramente al governo le polemiche sui ritardi nell’esecuzione delle opere, sebbene, come spiega Tuto Beat Wehrle, responsabile in Brasile del programma “A chance to play” (un’iniziativa solidale di sostegno ai bambini e adolescenti delle favelas di São Paulo promossa dalla sezione tedesca di Terre des hommes), in un’intervista pubblicata su Argenpress.info il 25 aprile, non si tratti di una questione di inefficienza, bensì di «un freddo calcolo economico» da parte delle imprese private, le quali, quanto più grave è il ritardo, tanto più possono avanzare pretese rispetto a «pagamenti aggiuntivi», con il risultato che le spese per gli impianti, stimate inizialmente attorno ai 2,4 miliardi di reais, hanno già oltrepassato gli 8 miliardi: un investimento superiore a quelli dei mondiali in Germania e in Sudafrica messi insieme. E considerando che la Coppa del Mondo costerà oltre 30 miliardi di reais (10 miliardi di euro), la cifra più alta nell’intera storia dei mondiali di calcio, non c’è da stupirsi che, stando a un recente sondaggio dell’Istituto Datafolha, il 55% dei brasiliani sia convinto che i mondiali produrranno più costi che vantaggi. Ancor più grave, tuttavia, è che, per ultimare in tempo utile la costruzione degli impianti, le imprese impongano agli operai estenuanti giornate di lavoro, fino a 18 ore, aumentando il rischio di incidenti anche mortali. Nove lavoratori hanno già perso la vita nei cantieri (sette in seguito a incidenti e due per infarto), l’ultimo dei quali, il 23enne Fábio Hamilton da Cruz, è morto cadendo da un’altezza di oltre 8 metri, il 29 marzo, mentre lavorava all’installazione delle tribune provvisorie dello stadio Itaquerão (Arena Corinthians), a São Paulo. «Cose della vita», è stato il micidiale commento di Pelè: un incidente che «può succedere», qualcosa di «normale».
Vittime della “pacificazione”
Neppure giovano al governo le proteste relative alla questione della sicurezza e del controllo del territorio, soprattutto rispetto all’azione di “pacificazione” delle favelas, culminata agli inizi di aprile con l’occupazione da parte dell’esercito del Complesso della Maré, la più grande favela di Rio de Janeiro (costituita da 17 comunità per un totale di 130mila persone), per introdurvi, come già avvenuto altrove, un’Unità di Polizia Pacificatrice (Upp).
«Per quanto possa valutarsi positivamente – scrive Beat Wehrle – la strategia diretta a sottrarre territori al crimine organizzato, il sollievo delle famiglie che abitano nelle favelas “pacificate” ha ben presto ceduto il passo alla sofferenza dinanzi all’azione ugualmente arbitraria, repressiva e violenta delle polizie militari». In realtà, come ha commentato il sociologo Cândido Grzybowski (Canal Ibase, 7/4), l’attuale politica di sicurezza è rivolta a proteggere la città dalle favelas e dai loro abitanti piuttosto che garantire a tutti il diritto alla sicurezza: «La polizia, quando non è connivente con la criminalità per trarne vantaggi, ha sempre guardato al territorio delle favelas come a uno spazio ostile semplicemente da reprimere». È assai significativo, ha sottolineato Grzybowski, che, in relazione al Complesso della Maré, si sia parlato esplicitamente di “occupazione” – e davvero di questo si è trattato, «con blindati, armi pesanti, elicotteri e un intero arsenale di guerra» –, anziché, per esempio, di «“liberazione” da trafficanti e milizie armate». E altrettanto significativo è il fatto che non si sia nascosta la durata di tale “occupazione” militare, che andrà avanti solo fino al termine della Coppa del mondo. Non c’è allora da stupirsi che nella favela di Pavão-Pavãozinho, tra i due quartieri più turistici di Rio de Janeiro, Copacabana e Ipanema, sia esplosa una vera rivolta – con tanto di incendi, barricate e sparatorie, e con il bilancio di almeno una vittima – in seguito alla morte in circostanze non chiare di un ballerino di un varietà televisivo, Douglas Rafael da Silva Pereira, durante una perquisizione della polizia, la quale, pare, avrebbe scambiato il giovane per un malvivente, pestandolo a sangue. Non sarebbe certo una novità: secondo un recente rapporto del Forum brasiliano di sicurezza pubblica, addirittura cinque persone al giorno muoiono in conseguenza di azioni da parte della polizia (1.890 le vittime solo nel 2012).
A esprimere critiche è anche la Conferenza episcopale brasiliana, che, in un messaggio emesso lo scorso marzo, esprimendo solidarietà a «quanti, a causa delle opere legate alla Coppa del mondo, sono stati feriti nella propria dignità e colpiti dal dolore della perdita di persone care», ritiene inammissibile «che il mondiale finisca per aggravare le disuguaglianze urbane e la devastazione ambientale, giustificando l’adozione progressiva di uno stato di eccezione, mediante decreti, misure provvisorie e risoluzioni».
Se è difficile prevedere l’impatto delle rivolte delle favelas sullo svolgimento dei mondiali, è certo, comunque, che la mobilitazione legata allo slogan “Não vai ter Copa” (la Coppa del mondo non si farà) non ha più raggiunto i livelli di partecipazione di massa che hanno caratterizzato le manifestazioni dello scorso anno. E in ogni caso sono in tanti a pensare che le proteste debbano precedere (e seguire) i mondiali, ma non accompagnarli: «Non siamo contro la Coppa del mondo – ha dichiarato per esempio João Pedro Stedile, uno dei leader più autorevoli del più importante movimento sociale del Brasile, quello dei Senza Terra –: il popolo brasiliano vuole assistere ai mondiali. Per quanto i biglietti siano molto cari e i profitti andranno tutti alla Fifa, le persone vorranno seguirli da casa, in televisione». Di conseguenza, «il peggior momento per le manifestazioni è proprio durante i mondiali. Si tratterebbe di un errore da parte dei giovani: le mobilitazioni devono essere fatte prima». (claudia fanti)