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Un pallone salvò Rino dal lager

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Nella giornata della memoria, c’è una storia, sicuramente poco nota ai tifosi degli stadi “smemorati” di oggi, che va raccontata. È la storia di Rino Mario Pagotto, e a riportarla alla luce è stato Giuliano Musi (giornalista del Corriere dello Sport Stadio) nel suo libro Pagotto. Un calcio anche alla morte (Minerva Edizioni).

Rino non era un ebreo, ma dai campi di calcio della Serie A, un giorno si ritrovò a vivere l’esperienza drammatica dei campi di concentramento nazisti. I primi campi che aveva conosciuto e calcato, erano quelli dove lavoravano come contadini i suoi genitori e i fratelli, a Fontanafredda (Udine), il paese dove era nato nel 1911. Poi, trasferitosi con la famiglia a Pordenone, nelle ore rubate alla bottega di ciabattino c’era stato il campetto dell’Aurora, la squadra della parrocchia. «Non avevo mai pensato di entrare su quel campo per farne una ragione di vita», raccontò ai figli Piero e Patrizia (che hanno collaborato alla stesura del libro).

E invece come nelle più romantiche delle storie di cuoio, Rino passò al Pordenone e da lì quel terzino granitico e dall’anticipo bruciante, andò a provare per il grande Bologna. Ad attenderlo, il tecnico ungherese Árpád Weisz che squadrò quel ragazzone di belle speranze e prima del test gli intimò: «Non abbia paura di sbagliare, è meglio osare che trattenersi».

Pagotto osò e riuscì ad entrare nella rosa del Bologna riserve. L’infortunio del difensore Gasperi gli aprì le porte della prima squadra: esordio in Serie A, con tanto di vittoria, contro il Genoa, il 1° novembre del 1936. Fu tra i protagonisti dello scudetto e l’anno dopo anche della conquista del Trofeo dell’Esposizione di Parigi. La lezione di calcio impartita al Chelsea, sconfitto 4-1 in finale, fece del Bologna la prima squadra italiana a superare i maestri inglesi in un torneo internazionale.

Da quel momento Pagotto divenne uno degli eroi dello «squadrone che tremare il mondo fa». Il Bologna alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 era passato sotto la direzione del tecnico Felsner, l’ebreo Weisz era dovuto scappare dall’Italia, per poi finire i suoi giorni a Auschwitz: ucciso dal boia nazista assieme alla moglie Elena e i figli Roberto (12 anni) e Clara (8). Pagotto con Fiorini e poi con Ricci, intanto alzava il muro della difesa bolognese e il tenente degli alpini Vittorio Pozzo lo arruolò in Nazionale per la sfida contro la Romania. Due anni più tardi quel “battesimo azzurro”, stop al campionato: il suo destino e quello di tanti calciatori fu quello di rispondere alla chiamata della patria.

«Venni richiamato dagli alpini il 16 ottobre del 1942 e fatto prigioniero dalle SS l’8 settembre del ’43», ricordava amaro Rino che si ritrovò prigioniero nel campo di Hohenstein (Prussia dell’Est). «Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all’interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo». Ricordi tragici del prigioniero “DA8659” («nemmeno cento numeri più dello dello scrittore Rigono Stern»), che da Hohenstein venne trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia.

Qui Pagotto scambiò qualche frase con «i prigionieri dalle divise a righe», ebrei che come lui non speravano più di tornare liberi. L’unico scampolo di libertà lo ritrovò nell’ultima tappa della prigionia, a Cernauti, dove rivide ragazzi e ragazze ebrei conosciuti a Hohenstein e Byalistok, ma soprattutto il pallone. Pagotto si trasformò in allenatore-giocatore e mise in piedi una squadra fortissima che ben presto divenne celebre come “Quelli di Cernauti”. La formazione con la quale a Sluzk (vicino Minsk) «osò» sfidare la squadra dell’Armata Rossa, ridicolizzandola con un quasi cappotto, 6-2. Una gara da “fuga per la vittoria” che anticipava il tanto agognato ritorno a casa («il 18 ottobre del 1945») per abbracciare la moglie Giuseppina e il suo Bologna. Ma fino all’ultimo (è morto nell’agosto del ’92) di tutte le sfide disputate, Rino ricordava quelle leviane dei “giorni in cui l’uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini”: «Noi nei lager ad ogni partita ci giocavamo la vita...».

Massimiliano Castellani - avvenire.it

Egitto, oltre 70 morti allo stadio in uno scontro tra tifoserie

Almeno 73 persone sono morte durante scontri tra tifosi durante un incontro di calcio a Port Said, nel nord-est dell'Egitto. Lo ha reso noto il ministero della Sanità egiziano. Gli incidenti sono avvenuti all'inizio della gara tra Al Masri, la squadra locale, e Al Masri, formazione del Cairo. Ci sarebbero anche centinaia di feriti. Secondo la tivù Al Arabiya gli scontri sarebbero legati a motivi calcistici e non a ragioni di altro genere e sarebbero esplosi dopo un'invasione di campo. Stando al sito web del quotidiano Al-Ahram, la maggior parte delle persone sarebbe morta nella calca che si è creata per uscire dallo stadio.​

avvenire.it

La strana storia di Phil Mulryne, ex calciatore del Manchester United che studia per diventare prete. Il suo allenatore: “Uno shock”

Ha giocato con campioni del calibro di David Beckham e Ryan Giggs indossando la maglia di una squadra stellare come il Manchester United. È stato fidanzato con la supermodella Nicola Chapman, non si è fatto mancare auto e divertimenti. Oggi Phil Mulryne, 34 anni, irlandese, ritiratosi dall’attività di calciatore professionista nel 2008 dopo un incidente, segue un altro genere di “allenamento”. Studia, l’ex-centrocampista. E lo fa per diventare prete. Frequenta il Pontificio Collegio Irlandese a Roma.

Paul Mc Veigh lo ha allenato quando giocava nel Norwich. In questi giorni, come riferisce il Catholic Herald, Mc Veigh ha avuto modo di incontrare il suo “vecchio” giocatore nella capitale italiana: «Mi è sembrato davvero molto contento e ho avuto la netta impressione che abbia preso la cosa proprio seriamente». «Per me, ma soprattutto per il nostro mondo, la scelta di Mulryne è stata vissuta come un vero e proprio shock». Anche la madre del futuro sacerdote intervistata da un giornale inglese a proposito della vocazione del figlio ha parlato di una decisione maturata nel tempo, una decisione «molto importante».

La vita del calciatore aveva preso una rotta diversa proprio dopo l’incidente che ha messo fine alla sua attività da professionista. Fondamentale, in quel momento drammatico, è stata l’amicizia con Noel Treanor, il vescovo della diocesi di Down e Connor, nell’Irlanda del Nord. E’ stato Treanor a coinvolgerlo in attività caritative. E ad aiutarlo nel maturare una scelta contro-corrente. Tocca al futuro don Mulryne: dall’Old Trafford al Vaticano. 

 di Mauro Pianta / vaticaninsider