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Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno.

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...».

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio».

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale».

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni.

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori.

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”».

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene».

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico».

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi».

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».
Massimiliano Castellani
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avvenire.it

Italia: il ct Prandelli richiama Mauri e Borriello

Rientrano quattro azzurri, i difensori Criscito e Zambrotta, il centrocampista Mauri e l'attaccante Borriello, nel gruppo dei 23 giocatori convocati oggi dal commissario tecnico Cesare Prandelli per il doppio impegno con Irlanda del Nord e Serbia che attende la sua Italia nelle qualificazione agli Europei del 2012. La nazionale italiana, che attualmente guida il Gruppo C a punteggio pieno grazie alle due vittorie ottenute a settembre contro Estonia (2-1) e Isole Far Oer (5-0), giocherà la prima partita contro l'Irlanda del Nord a Belfast venerdì 8 e la seconda a Genova contro la Serbia martedì 12. Gli azzurri si raduneranno domani entro le ore 12.30 a Coverciano, dove nel pomeriggio, alle 16.30, inizieranno la preparazione. Martedì e mercoledì due sedute di lavoro giornaliere, mentre giovedì, dopo l'allenamento del mattino, l'Italia partirà per Belfast. (APCOM)

Il Milan conquista la vetta

"Mamma, che gol!". Lo dice Ronaldinho, già pallone d'oro, guardando la conclusione di Andrea Pirlo da 38 metri infilarsi tra palo e traversa, nell'unico punto dove Mirante, prima e dopo strepitoso, non può arrivare. Per il centrocampista rossonero è il sesto gol al Parma in carriera, il primo che regala la vetta provvisoria della classifica ai rossoneri. Un ritrovato Gattuso e Ronaldinho dietro le due punte le scelte azzeccate da Allegri, contro un avversario volitivo ma 'spuntato': Crespo non è Bojinov e senza Giovinco la fantasia scarseggia. Promosso anche Ibra, mentre Robinho non incide né come suggeritore, né al tiro.

SETTE MESI DOPO — Il primo posto dei rossoneri - 11 punti contro i 10 di Inter e Lazio - coincide con il ritorno al successo in trasferta a sette mesi di distanza dall'ultima volta: il 3 aprile scorso, il Milan batteva il Cagliari 4-3, prima d'iniziare un lungo digiuno. Lo ha interrotto Andrea Pirlo, con un tiro dei suoi sceso improvvisamente alle spalle di Mirante.

NON SOLO IBRA — Il Milan di Parma è forse il migliore visto dall'inizio di campionato (non fa testo il 4-0 all'esordio con il Lecce): Nesta-Thiago Silva è la coppia centrale che dà maggiori garanzie, Gattuso vale Boateng con più cattiveria, mentre Pirlo è la scintilla per accendere Ibra. La vera novità, però, è Ronaldinho trequartista, non più confinato a sinistra, ma libero di verticalizzare o puntare la porta. Dopo la panchina in Champions League, un giocatore parzialmente ritrovato. Gli unici che non brillano sono Seedorf, troppo lento con la palla tra i piedi, e Robinho, morbido quando c'è da concludere. Il cambio con Pato, al rientro dopo l'infortunio, apre nuovi scenari sul tridente d'attacco.

MIRANTE E CRESPO — Il Parma, invece, non è molto diverso da quello visto a Firenze. C'è Crespo in avanti al posto di Bojinov, l'occasione che gli capita al 12' - a tu per tu con Abbiati - qualche anno fa non l'avrebbe sbagliata. Gli emiliani recriminano per un contatto Nesta-Paci in area nella ripresa, il rigore ci può stare. Ma se in quella fase del match il parziale è solo di 1-0, il merito è soltanto di Mirante, decisivo in almeno tre occasioni: al 29' su Ibra in uscita, e poi al 37', quando lo svedese calcia tre volte e per tre volte l'estremo difensore del Parma gli nega la gioia del gol. Poi s'infortuna Morrone, e Marino inserisce Valiani che carbura alla distanza. Suoi i cross del forcing parmense, anche se l'occasione più ghiotta capita a Ronaldinho, ma non la sfrutta.

ROBINHO NON VA — Se non altro, Ronaldinho si muove per 90' e cerca spesso la verticalizzazione. A deludere, ancora una volta è Robinho, a corto di condizione e di lucidità ogni volta che si presenta in area. L'errore al 13' della ripresa ricorda quello di mercoledì in Champions League, anche se meno clamoroso. Probabile l'inserimento di Pato già dal prossimo match.
Claudio Lenzi - gazzetta.it