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Solo l’arbitro va al patibolo. de l’Italo africano

di Italo Cucci

B uono il bilancio tecnico del Mondiale dopo gli ottavi. Miserrimo quello umano. E scusate se faccio prevalere il discorso degli arbitri - questa è la miseria ­sulla dovizia di dati tecnici e spettacolari.

Iermattina è “scomparso” Busacca, lo svizzero che solo poche ore prima era candidato a dirigere la finale. Motivazione principe: non lo utilizzavano mai; e l’intelligenza del villaggio precisava: lo risparmiano per il botto finale. Ancora non sappiamo perché sia stato fatto fuori, ma non é questo il problema: é con quale leggerezza, mentre si parla di ipotetiche innovazioni tecnologiche che non saranno mai radicali, si buttano gli arbitri/uomini nella monnezza metaforica che viene invece risparmiata a tutti gli altri protagonisti. Guardate non tanto Larrionda, che dovrà vedersela con gli uruguagi, e non credo che lo sbraneranno per non avere visto il gol di Lampard (funzione cannibalesca che piacerebbe semmai a Capello); guardate Rosetti, che ha atteso una vita di poter fischiare una finale mondiale dopo aver diretto l’ultimo atto di un Campionato d’Europa e di una Champions ed è rispedito in patria con ignominia per un fuorigioco non visto dall’assistente Ajroldi: per carità, chi sbaglia paga, ma come la mettiamo con il massacro mediatico cui è stato sottoposto, aggregato alla compagnia degli Italiani Perdenti (Lippi, la Nazionale e Capello) con un piacere rivelatore di un penoso disfattismo? I media insorgono contro questi Orrori Arbitrali e tuttavia - guarda un po’ - plaudono alla giovinezza e freschezza e allegrezza della Germania che ha giustamente fatto a pezzi l’Inghilterra; e accusano Rosetti per quel fuorigioco ignorato che ha consentito a Tevez di iniziare a fare a pezzi il Messico, ma le cronache non fanno altro che elogiare l’Argentina di Maradona, il Maradona dell’Argentina, così come minimizzano il fallo che avrebbe dovuto far cancellare il gol di Villa costringendo la Spagna a battersi fino in fondo per eliminare il Portogallo. Quegli errori, allora, sono umani o sono mostruosi?

Non sono forse una rappresentazione pratica della mano de Dio, la conferma che la terna arbitrale è solo e sempre una componente del gioco? Per il resto, dicevo, tutto bene: il Sudamerica avanza con una ventina di giocatori presi dal campionato italiano; Germania, Olanda e Spagna hanno i numeri per far immaginare almeno una finale, che so, fra rappresentanti dei due continenti padroni del calcio: ma c’è anche il Ghana, che mi sta diventando sempre più simpatico e che meriterebbe d’essere il Grande Incomodo in nome dell’Africa. In nome di Balotelli: se lo scellerato Mario si facesse furbo, visto che i tecnici d’Italia hanno la puzza al naso, un posto da re nel Ghana pallonaro non glielo negherebbe nessuno.

Prandelli, pensaci tu.
avvenire

Sorprese mondiali ed eclissi di stelle

Rooney e Ronaldo eliminati senza incidere; Kakà, Torres e Messi avanti senza gol. Unica ecceziona la coppia olandese formata da Sneijder e Robben. Lo spagnolo Villa è la grande sorpresa. Su 123 reti segnate sinora solo 11 provengono dalla nostra Serie A

DI MARCO BIROLINI - avvenire

Il Mondiale che non ti aspetti. Ar­gentina, Brasile e Spagna erano e restano le favorite, ma a spinger­le avanti finora sono stati gli attori di secondo piano. Kakà doveva essere la stella cometa della Seleçao, e inve­ce a brillare è l’astro di Luis Fabiano, centravanti del Siviglia che prima del torneo non figurava certamente nel ristretto club dei top player. Leo Mes­si era annunciato come uomo co­pertina, invece ecco sbucare la faccia ruvida di Gonzalo Higuain e i suoi quattro gol. Fernando Torres ha ta­gliato i capelli e sembra aver perso le forze, moderno Sansone. Ci ha pen­sato David Villa a togliere le castagne dal fuoco con quattro guizzi dei suoi. Il Barcellona si frega le mani, con­tento di aver speso bene i 40 milioni scuciti al Valencia. Quanto a Cristia­no Ronaldo e Wayne Rooney, le altre due superstar, hanno fatto la valigia ancor prima che qualcuno si accor­gesse della loro presenza. Le stelle, insomma, sono rimaste a guardare. Se non altro, Messi e Kakà hanno re­galato sprazzi del loro talento, il por­toghese e l’inglese invece hanno la­sciato in bocca il gusto amaro del­l’occasione perduta. Tra i fantastici quattro solo Ronaldo è andato in gol, troppo poco.

Ma altri numeri testimoniano l’eclis­si dei supercampioni. Il Castrol Index (elaborato dalla Fifa sulla base di pas­saggi, tiri e corsa per misurare in mo­do oggettivo il rendimento) vede Messi al 46° posto, Ronaldo all’89°, Rooney al 107° e Kakà addirittura al 200°. Higuain, per dire, è 15°, Villa 22°. Sempre a proposito di cifre, Milito è ancora a quota zero gol. L’uomo che ha firmato la tripletta interista è ri­masto a secco, oscurato dagli altri as­si della banda Maradona. A questo Mondiale mancano le reti “italiane”. Non solo gli azzurri hanno faticato a segnare, ma anche gli stranieri che giocano nel nostro campionato. Su 123 gol totali, solo 11 provengono dal­la serie A. Decisamente pochi, visto che ben 80 giocatori impegnati in Su­dafrica militano nelle nostre squadre. La quantità c’è, la qualità meno. L’u­nico a farsi onore è Sneijder con due gol: con Robben forma una coppia che fa sognare l’Olanda. Meglio dei “nostri” hanno fatto quelli di Liga (23 reti), Premier League (21) e Bunde­sliga (13). I bomber, insomma, abita­no altrove: non è un caso che Villa, Higuain, Luis Fabiano e Forlan gio­chino in Spagna. L’Italia si conferma Paese dedito al difensivismo: Brasile e Argentina sono dei bunker grazie a Samuel, Juan, Lucio, Maicon e Bur­disso.

Per divertirsi meglio guardare il Gha­na di Asamoah Gyan, uno dei tanti incompresi del nostro calcio (un al­tro è Tiago, resuscitato nel Portogal­lo), e soprattutto la Germania più ve­loce della storia. Una volta i panzer e­rano potenti ma lentissimi, adesso li costruiscono agili e scattanti. Merito della nazionale multietnica dipinta da Loew, signor nessuno capace di stupire. Il genio turco Ozil (21 anni) e il polacco Podolski sono i degni com­pari di Thomas Muller, che un anno fa era ancora un dilettante. Poi al Bayern è arrivato Van Gaal e il brutto anatroccolo si è trasformato in cigno: Capello ne sa qualcosa. Tra i prota­gonisti inattesi bisogna infilare pure l’Uruguay. Tabarez sta dimostrando che il Milan non aveva visto così ma­le quando lo chiamò nel 1996, salvo silurarlo poco dopo per richiamare Sacchi. Allenatore dai modi pacati e dallo sguardo malinconico, Tabarez ha saputo capitalizzare il talento di Forlan e Suarez, imbastendo alle lo­ro spalle una squadra vera e rogno­sa, capace di complicare la vita a chiunque. Dagli ottavi sono sbucati anche i cugini del Paraguay. Dopo la vittoria ai rigori sul Giappone il ct Martino piangeva a dirotto. C’è da ca­pirlo, visto che la nazionale sudame­ricana non era mai arrivata ai quarti. Altra sopresa l’ha regalata il Messico, con il suo gioco spumeggiante e i suoi giovani di belle speranze. Uno, Javier Hernandez, l’ha già preso il Manche­ster United per 7 milioni di euro. In Sudafrica ha segnato due reti: ha 22 anni e lo chiamano El Chicarito (il fa­giolino). Le squadre italiane lo han­no notato troppo tardi, come sempre più spesso accade quando c’è da comprare qualcuno capace di fare gol.

«Il calcio? Democrazia e riscatto Ma spesso è usato dai politici»

DA RIO DE JANEIRO

Che Il calcio in Brasile sia una realtà più im­portante che in qua­lunque altro Paese al mondo lo dimostrano gli innumere­voli articoli, libri e convegni dedicati al futebol verdeoro come espressione sociale e di riscatto. E lo conferma l’esi­stenza di corsi accademici co­me quello di cui è titolare, al­l’Università statale di Rio de Janeiro e all’Università Salga­do de Oliveira, il professor Maurício Murad. Murad insegna infatti Sociologia del calcio.

Perché il calcio in Brasile è così importante?

Una certa identi­ficazione con la nazionale di cal­cio esiste in qua­lunque Paese in cui questo sport è amato. Ma è vero: qui in Brasile tale i­dentificazione con la Seleção è totale. E questo per una ra­gione peculiare: le squadre di calcio in generale, e la nazio­nale in particolare, sono la rappresentazione del Paese. Non del Paese come è, ma co­me dovrebbe essere. Un Pae­se vincente – perché nessuno ha conquistato tanti titoli mondiali come il Brasile – e soprattutto un Paese demo­cratico. In nazionale giocano bianchi e neri, ricchi e pove­ri. Anzi, i grandi campioni, da Pelé a Garrincha, da Ronaldo ad Adriano, vengono dalla po­vertà o dalle favelas. Il calcio ha dimostrato ai brasiliani che anche i più svantaggiati, i ne­ri discendenti dagli schiavi, possono imporsi e avere suc­cesso. E tutto questo in ar­monia con quei bianchi di buona famiglia, alla Kaká per intenderci, che nella storia del Brasile hanno sempre avuto grandi privilegi.

Il calcio è quindi simbolo di riscatto sociale. Ma è anche la rappresentazione di un Paese socialmente giusto che, nella realtà, non esiste...

Esatto. In Brasile la disugua­glianza sociale è ancora gran­de. Ma la situazione è miglio­rata molto negli ultimi de­cenni. E io credo che il calcio abbia assai contribuito a diffondere l’idea della parità dei diritti. Il calcio ha unito bianchi e neri, ricchi e poveri come soltanto in un altro settore della cultura po­polare del Paese è successo, ovve­ro in quello mu­sicale. Certo, da qui a pensare che il calcio e la musica, da soli, possano cam­biare la menta­lità di un Paese gigantesco e complesso come il Brasile, ce ne corre...

Non ritiene però che dare tanta importanza al calcio fi­nisca con l’essere pericoloso? A volte si ha la netta sensa­zione che il brasiliano scenda in piazza solo per la naziona­le e mai per protestare con­tro ingiustizia e malgoverno.

Ciò avviene costantemente. La colpa però non è del cal­cio, ma dell’uso politico che ne viene fatto. Fin dai tempi della dittatura militare, le vit­torie della Seleção sono state usate a fini propagandistici o per distogliere l’attenzione dai problemi reali. A mio pa­rere, i brasiliani dovrebbero continuare a seguire con la stessa passione il calcio. Ma dovrebbero essere educati a non attribuirgli un’importan­za esagerata. Credo che con il tempo si arriverà a questo tra­guardo. ( G.Mil. ) - avvenire