DI MASSIMILIANO CASTELLANI
Il calcio spezzatino ultramediatico ricattato dagli ultrà ha reso gli stadi tristi non più accessibili ai “tifosi veri” e alle loro famiglie
È una Babele insidiosa e maligna questo benedetto pallone. E noi che come Lucio Dalla, siamo cresciuti «guardando le partite alla radio», - mentre ascoltavamo la voce amica di Tutto il calcio minuto per minuto ci sentiamo i veri condannati al Daspo. L’estate sta finendo e un’era se ne va. Quella che comincia per il calcio italiano dicono sia l’«era della tessera» che rimetterà le cose a posto, ripulirà le Curve, riporterà la sicurezza e la pace negli stadi. Sarà vero? È pur vero che dopo un decennio nero, di guerriglie urbane, macchine incendiate, accoltellati, agenti feriti e ispettori di Polizia caduti assurdamente sul “campo” (l’omicidio di Filippo Raciti ancora irrisolto), da qualche parte bisognava pur cominciare. Il problema è che anche nella nostra Repubblica fondata sul pallone, gattopardescamente si insinua da sempre lo striscione intimidatorio: «perché tutto cambi occorre che tutto resti uguale». Uno slogan adottato dai presidenti delle società, ai quali fino a ieri, il gioco è andato bene così, anche cedendo al ricatto e foraggiando i capricci dalle spese per le trasferte fino all’ultima sciarpa - dei gruppi ultrà. Poi però l’affare si è fatto commerciale e di conseguenza politico, la situazione gli è sfuggita di mano, e alla fine, dopo aver gridato e minacciato, al padre- patron non è rimasto che spedire la palla avvelenata in tribuna, prendere tempo e chiedere aiuto al vecchio e traballante Stato.
Il quale, a sua volta, avendo legami più o meno diretti con gli stessi imprenditori dell’Azienda calcio, sta usando la stessa tattica: pugno di ferro e che il messaggio della «tolleranza zero» arrivi agli ultrà. Ma intanto melina ad oltranza, sperando che i tempi, compresi quelli supplementari e al limite ai rigori, aggiustino tutto. Però così si rischia che a pagare sia solo e soltanto uno: il tifoso-vero. Più raro di un panda per la pubblica ottusità, eppure ancora maggioranza civile e per questo silenziosa. Stanno uccidendo il papà-tifoso. Quello che oltre a crescere e a educare un figlio ai valori sani della vita, lo aveva anche introdotto in quello che un tempo era il meraviglioso mondo delle gradinate. Ci faranno vedere il calcio a tutte le ore, da quella di pranzo (anticipo domenicale delle 12,30 che fa saltare il tradizionale convivio in famiglia) fino a notte fonda, ma hanno deciso che oscureranno l’immagine del papà che porta per la prima volta il figlio allo stadio. Eppure, se sapessero quanto era importante quell’iniziazione per un genitore-tifoso: fondamentale quanto il primo dentino spuntato, il primo giorno di scuola, il diploma, la laurea del figlio. «La colpa è degli stadi», l’altro tormentone. I nostri, sono i più brutti e insicuri d’Europa, vero. Ma è anche vero che quando con il tempo e nonostante le bombe scampate i nostri stadi diventano luoghi d’arte e monumenti alla memoria, poi li buttano giù e ne costruiscono di nuovi che però hanno sempre barriere, fossati ed eserciti - spesso inutili e costosi per dividerci, per tenerci a distanza, anche a noi che siamo tifosi veri. Quelli sani e onesti che hanno sempre pagato il biglietto e che erano felici anche di fare la coda al botteghino in compagnia di un padre, di un amico. Sereni e pacifici nell’aspettare insieme, per ore, che la partita cominciasse, mangiando pane e frittata e brindando con una lattina a una felicità frizzante che forse può stare anche dentro lo spazio ristretto di 90 minuti. C’è chi considera tutto questo un passato da cancellare, e dai e dai ci si sta riuscendo. E non poter neanche più dire senza essere derisi, «mio padre (il buon Mario) mi ha portato in tutti gli stadi d’Italia e non ci è mai capitato niente...», è la peggiore delle sconfitte.
Ma anche per questo motivo, i violenti non possono averla vinta.
avvenire 29 agosto 2010