«Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati, sputati dalla terra
natia, da tutto un popolo amati…». Così il poeta Umberto Saba omaggiava i
beniamini della squadra della sua città, la Triestina. E questi versi
oggi sono l’unico raggio luminoso che resta di quella gloriosa società,
nata nel 1918 dalla fusione con l’altrettanto mitica Ponziana (lì mosse i
primi passi il capitano del Toro anni ’70 Giorgio Ferrini). Dopo essere
fallita nel ’94, quest’estate la Triestina ha concesso l’umiliante bis.
Ora non c’è più bisogno neppure di mascherare i vuoti degli spalti con
le sagome cartonate dei tifosi-assenti che hanno appena ispirato anche
il patron del Genoa Preziosi. Il moderno stadio (inaugurato nel ’92),
dedicato al genius loci del calcio triestino, il “Paròn” Nereo Rocco -
di cui ricorre il centenario, era nato il 20 maggio del 1912 -, ora che i
rossi alabardati sono stati retrocessi d’ufficio nel campionato di
Eccellenza, con i suoi 30mila posti è diventato un anacronistico deserto
dei tartari.
Solo un gradino più in alto della Triestina si
colloca l’altrettanto poetica - fin dal nome - Spal, acronimo della
ferrarese “Società Polisportiva Ars et Labor”. Per i biancoazzurri di
Ferrara trepidava un altro monumento della letteratura del ’900, Giorgo
Bassani, il quale se oggi riscrivesse i “Racconti ferraresi” purtroppo
dovrebbe aggiornare la seconda misteriosa sparizione della Spal. La
nobile società del presidente Paolo Mazza che nelle 16 stagioni
trascorse in Serie A aveva lanciato i giovani Fabio Capello, Edy Reja,
il bomber Massei e il più grande irregolare del calcio italiano, il
poeta Ezio Vendrame, dopo essere stata rifondata nel 2005 si è
nuovamente inabissata. Nell’anno del suo centenario (1912), mentre il
suo ultimo patron, Butelli, pensava di svoltare nel dorato mondo del
pallone puntando sul fotovoltaico, la Spal si è ritrovata al buio, in
Serie D. Peraltro in un girone (D) dove la risalita sarà tutt’altro che
agevole, perché il blasone in queste categorie non basta e la nuova Real
Spal dovrà fare i conti con altre nobili decadute come la capolista
Pistoiese (in Serie A nella stagione 1980-’81) e la Lucchese che per
tutti gli anni ’90, in B, recitò magnificamente il ruolo di outsider.
Dietro
la Pistoiese, insegue la Pro Piacenza che non è quel Piacenza dei
Garilli che fino a poco fa aveva conosciuto i fasti della Serie A e le
magnifiche cavalcate in gol del “Tatanka” Hubner, perché non c’è più.
Dopo tre aste fallimentari andate deserte, il vecchio Piacenza ha
letteralmente spaccato la tifoseria, già molto provata, affittando il
suo marchio (per 4 anni) alla Lupa Piacenza che milita nell’Eccellenza
Emiliano-Romagnola.
Se è nebbia per i club in Val Padana, per
molti del Sud il presente è fatto di stenti e piccoli drammi calcistici,
come quello del Taranto. Ai veleni dell’Ilva nella città del Mar
Piccolo si aggiungono quelli dei supporters dello Iacovone dove domenica
scorsa erano in 2mila per il derby di serie D con il Foggia. Hanno
vinto i satanelli foggiani che appena due anni fa erano tornati a
sognare una seconda Zemanlandia, grazie al ritorno al timone del
presidente Casillo e in panchina del tecnico boemo, ora alla Roma. Una
corsa alla B interrotta dopo che Zeman era riuscito a mandare in rampa
di lancio giovani speranze azzurrate come Laribi, Insigne e Sau. Dal
canto suo il Taranto la passata stagione con Dionigi, il mister che
legge il Vangelo nello spogliatoio, ha sfiorato il “miracolo”
promozione, nonostante che i suoi giocatori a fine mese tornavano
mestamente a casa senza stipendio.
Storie fallimentari vissute
anche al Messina dove le sfide con Juve e Milan ormai sono un miraggio,
lì nel campionato dilettanti in cui il club siciliano è parcheggiato da
un po’ in compagnia di quel Cosenza che nelle stagioni in cui giocava
Donato Bergamini (il “calciatore assassinato” nel 1989) lottava per la
promozione in Serie A. Miseria e nobiltà condivisa ad Ancona dove si è
passati in un lampo dalla C alla Serie A (con l’impresa di Gigi Simoni) e
poi giù fino al dilettantismo, complice le follie del presidente,
Ermanno Pieroni, che ha pagato con il carcere, forse anche un po’ per
tutto il calcio marcio nazionale. Pieroni, l’ex uomo mercato che aveva
fatto grande anche il Perugia: prese Nakata per un piatto di sushi
rivendendolo alla Roma per quei misteriosi 50 miliardi di vecchie lire
incassati da Luciano Gaucci. Il Big Luciano, che in un decennio ha
portato dalle stelle alle stalle (come i cavalli della sua ex
prestigiosa scuderia, la White Star) il Perugia, prima di fuggire nel
buen retiro di Santo Domingo. Ora il Grifone umbro, reduce da due
promozioni di fila è al comando della Lega Pro e vola sulle ali di una
tradizione che vuole il Perugia unica provinciale ad aver chiuso
imbattuta il campionato di Serie A, stagione 1978-’79.
Come il
Perugia anche Salerno è ripartita dalla D, acquistata lo scorso anno dal
moralizzatore laziale, il presidente Claudio Lotito, ha subito vinto il
campionato. Ora in Seconda divisione è tornata a chiamarsi
Salernitana, ma l’era dei granata di Delio Rossi è ancora lontana e
leggendaria, quanto quella del cinghiale bianco.