Pensare il corpo è sempre esperienza molto interessante non solo in senso teorico, anche dal punto di vista della scrittura. Come rendere con le parole i movimenti fisici, e in genere l’allenamento del corpo? Come raccontare sulla pagina la fatica, lo sforzo che il dinamismo dello stare in movimento procura? Bill Hayes, giornalista, fotografo, nonché curatore delle opere postume di Oliver Sacks, affronta questa sfida dalla prospettiva della ricostruzione storica. In Sudore. Una storia dell’esercizio fisico (traduzione di Goffredo Polizzi, Il Saggiatore, pp. 302, euro 26) traccia una storia di quella pulsione vitale che da sempre ci accompagna e che sempre più è divenuta centrale in tante delle nostre vite. La pulsione a muoversi, esercitare e irrobustire il corpo senza indugiare nella stasi e nell’immobilità del solo pensare, o stare passivamente seduti davanti a schermi, o come che sia, perderci in elucubrazioni e ristagni che ci scollano dalla relazione con il nostro corpo. Il rapporto con il fisico è anche rapporto con il suo faticare nel mentre lo si muove e lo si allena: una traiettoria che si disegna dal mondo antico, quando il sudore degli atleti veniva conservato in ampolle, perché sacro, alla analoga dimensione sacra che oggi viene attribuita alla attività fisica, intesa come disciplina identitaria, nel senso di attività regolare che proprio nella sua regolarità ci aiuta a capire chi siamo, con un quotidiano esercizio a fortificare la nostra apparenza esteriore tanto quanto affinare il nostro più intimo sentire. Così nella bellissima citazione di Aristotele che fa da epigrafe a uno dei capitoli: «Noi siamo quello che facciamo ripetutamente, e l’eccellenza non è dunque un atto, ma un’abitudine».
Come sempre più spesso accade in certa saggistica che si vuole divulgativa in modo accattivante, l’autore costella questa ricostruzione storica del tema di episodi invece personali, autobiografici, scampoli di vita vissuta, lacerti di auto-testimonianze. L’effetto sortito è annacquare un poco un racconto che invece sarebbe di per sé stringente, dato il contenuto e la vicenda di stesso contenuto. Lunga avventura di una cura di sé e del proprio corpo che negli ultimi decenni è divenuta fonte di un narcisismo compulsivo, di un ossessivo mantenimento della propria immagine, da “scolpire” perché sia attrattiva.
Contemporaneità a parte, la traccia più bella del libro ricostruisce le concezioni dell’esercizio fisico elaborate nel mondo classico. Socrate considerava il nuoto come salvezza dalla morte; per Filostrato l’allenamento era una forma di saggezza, e sono interessantissime le considerazioni che l’autore greco fa in merito alla figura dell’allenatore dell’atleta (quello che oggi con acclamato anglicismo è definito “coach” o “personal trainer”). Costui, osservando e giudicando come qualcuno si allena, diviene giudice della sua natura intesa anche in senso morale. Per tornare all’oggi, interessanti sono anche i criteri che intervengono per formulare le valutazioni di chi si allena. Specificità (sforzare singole muscolature di singole parti del corpo), progressività, ma anche, criterio sovrano, il recupero. Riposare: lasciare che a ogni sforzo intenso del corpo segua un’adeguata, prolungata quiete che ne ristabilisca l’equilibrio. Questa storia del sudore, oltre a essere una retrospettiva dei modi in cui si è pensato all’allenamento fisico, è riflessione sulle prove cui la vita ci mette di fronte, da pensarsi come fatiche ma anche, sempre e comunque, come occasioni di crescita. Crescere mantenendosi vigili nell’ascolto di sé stessi, e capaci di riconoscere dove ci si è molto sforzati, così da regalarsi adeguati riposi. Perché ogni fatica, come ogni avvenimento, vuole tempo per sedimentarsi, assestarsi, determinare progressi. Sapere e obbedire a questo anche è allenamento – allenamento alla vita.
Avvenire

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