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Del Piero come Buddha

di Giorgio De Simone

Domenica a Napoli, Totti si stava già avviando verso la panchina, rassegnato ad andar fuori. Ma imprevedibilmente (?!) Ranieri lo lasciava in campo facendo uscire Borriello, ovvero il bomber che non aveva incantato ma si sentiva (dichiarazioni sue) «il gol in canna». A Milano, domenica sera, nella partita di gala contro l’Inter, Del Piero entrava in campo per accomodarsi, sereno come un Budda, nella buca dei panchinari. Sereno sì, il capitano della Juve, e anche allegro. Il contrario del capitano della Roma, ormai incapace di sorridere. Otto giorni prima, nella partita all’Olimpico contro l’Inter, Ranieri lo aveva sostituito a pochi minuti dalla fine, lui si era infilato negli spogliatoi più nero di un furioso Giove e da lì era poi corso a casa a smaltire l’affronto. Discussioni, chiarimenti ci saranno stati in settimana e il risultato eccolo lì: contro il Napoli, Totti non gioca bene, ma Ranieri lo lascia in campo. A quel punto (certo non esclusivamente per questa mossa) perde la partita quando la volta prima, sostituendo il capitano con Vucinic, proprio con Vucinic l’aveva vinta. I rapporti tra Ranieri e Totti saranno anche buoni, ma è un fatto che il Pupone le sostituzioni non le prende bene. E spiegherà pure il tecnico che a questo punto della carriera, misurando le energie, distribuendo le forze, Francesco sarà sempre lui. Niente da fare. Al contrario, sul versante bianconero, Del Piero se ne sta fuori con il sorriso di chi alla scuola di mister Capello, quando stava più in panca che in campo, la lezione l’ha imparata bene. Così bene che oggi i conti il giocatore li sa fare con la sua storia, la sua carriera, il suo portafoglio fino a farsi dire da tutt’e tre (storia, carriera e portafoglio) che sono conti giusti. Nato a Conegliano Veneto ma torinese d’adozione, Alex Del Piero conosce l’accortezza, la prudenza, la pazienza piemontesi.

Nemmeno a lui fa piacere non entrare in campo, meno piacere ancora gli fa uscire ma, ragionandoci, ha capito che è giusto così.

Questo in un mondo dove nessuno accetta di star fuori, domenica Cassano è uscito che sembrava un orso bruno e l’interista Muntari, quando ha saputo che non avrebbe giocato, ha rifiutato la tribuna. Francesco e Alex, i due grandi capitani oggi a passeggio sul Sunset Boulevard, hanno avuto e hanno una vita fatta di pallone come il pane è fatto di farina. Appassionata vita per l’uno, ragionata per l’altro. Totti è stato e resta (dopo il leggendario capitano Giacomo Losi)

er core de Roma e per lui il sentimento fa premio su tutto. Per Del Piero è invece la ragione da preferirsi a tutto. Uno va dove lo porta il cuore, l’altro dove la ragione ha detto al cuore di tacere.

avvenire.it

Mourinho “normal one” «Il mio credo speciale»

Il vero Josè Mourinho si è “confessato” a Fogli, l’inserto di “Studi Cattolici” e per gentile concessione pubblichiamo questa intervista. Un Mourinho molto umile e pacato.

Il vero “Special One” fa il modesto dopo i tre “tituli” - Coppa Italia, Scudetto e Champions League - del Grande Slam interista?
«Non sono modesto, sono credente».

Credente o superstizioso?
«Qualcuno mi aveva visto stringere un crocifisso durante una partita. Almeno una volta all’anno vado in pellegrinaggio a Fatima. Il crocifisso che porto con me è un regalo di mia moglie».

A proposito di crocifisso, che cos’era successo con il Sindaco di Reggio Calabria?
«Mi aveva accusato di avere dato una moneta a un bambino disabile per umiliarlo. Invece a quel bambino avevo donato il mio crocifisso. Mia moglie l’aveva comprato a Fatima e lo tenevo in tasca da tre-quattro anni».

Riesce a essere criticato anche quando fa un gesto affettuoso.
«Si vede che sono sfortunato...».

Come sconfigge la sfortuna?
«Con la preghiera».

Prega molto?
«Sono cresciuto in una famiglia religiosa».

Chi Le ha insegnato a pregare?
«Mia madre. E ricordo ancora certe preghiere che mi faceva dire la sera».

Ha un santo di riferimento?
«La Madonna di Fatima».

Con chi è andato la prima volta al Santuario di Fatima?
«Con mia madre. E da allora il 13 maggio è una ricorrenza molto importante per me e per la mia famiglia».

Sua madre la portava a Fatima mentre Suo padre Félix, ex portiere portoghese, sui campi di calcio.
«Mio padre viveva per il calcio. Io gli devo tutto».

Oltre agli schemi tattici in campo le ha dato dei suggerimenti anche per la vita?
«Onestà e lealtà verso il prossimo».

Che valori ha trasmesso ai suoi figli?
«Gli stessi».

Compreso l’insegnamento cattolico?
«Se n’è occupata soprattutto mia moglie».

Un papà forse un po’ assente?
«Quando posso, vado a prendere i miei figli a scuola e sto con loro. Mi ripaga delle volte che manco, per lavoro, alle feste importanti come i loro compleanni».

Sua moglie la segue sempre?
«Una vera famiglia deve essere unita. Ovunque».

Com’è Mourinho in famiglia?
«Normale. È una famiglia fantastica la mia. Siamo molto felici. Mia moglie e i miei figli sono molto importanti nella mia vita».

Sua moglie non compare nelle foto dei giornali.
«Non ama la mondanità, le piace stare tranquilla. Ha rinunciato alla sua carriera per starmi vicino».

Quando torna a casa dopo le partite parla di calcio?
«Che vinca o perda, è impossibile che sia una persona diversa quando torno a casa».

Chi è il mister in casa Mourinho?
«Mia moglie. Lei è fondamentale nella mia vita. I miei figli Matilde jr e José jr dicono, scherzando, che a casa non ho autorità. Matilde è il miglior allenatore del mondo. Mia moglie e i miei figli hanno la priorità su tutto. Non ci sono ambizioni che reggano».

È attaccato alla sua terra?
«Setùbal è il posto dove ritrovo le mie radici».

E ogni estate vi torna per insegnare calcio ai bambini poveri.
«Ho ricevuto tanto dalla vita e voglio regalare qualcosa a chi è meno fortunato».

Chi l’ha deciso?
«Matilde e io. Ma prima lei. Sono bambini sfortunati che noi siamo felici di aiutare».

A chi chiede aiuto quando una partita si mette male?
«In campo bastano i giocatori».

Ma lei è “The Special One”.
«Non voglio peccare di superbia».

Lo fa ogni volta che dice di essere il miglior allenatore del mondo.
«Ma è la verità».

Com’è un allenatore cattolico nei ritiri e in campo?
«Serio. Nel lavoro e nella vita. A volte l’esclusione dalla formazione serve come insegnamento».

Quale insegnamento?
«Che la vita è una faccenda seria. E va affrontata seriamente».

Per la serie: “Dio perdona, Mourinho no”?
«Solo dopo il ravvedimento».

Il Suo secondo nome è Mario, proprio come qualcuno che dovrebbe ravvedersi (leggasi Balotelli)?
«Io non faccio nomi».

Ci pensano i giornali.
«I giornali non sono la Bibbia».

Dalla Bibbia al Corano, che cos’era successo con Muntari?
«Niente di speciale».

L’aveva sostituito perché digiunava durante il Ramadan e in campo non rendeva.
«Quando un giocatore non è in forma viene sostituito. Senza problemi».

Ha avuto problemi come allenatore cattolico in Inghilterra?
«Ci mancherebbe. Non ascolto le critiche sul mio lavoro, figurarsi sul mio credo religioso».

Ha chiesto aiuto alla fede nei momenti difficili?
«Non solo in quelli difficili. E non mi ha mai deluso.

Sono invece molto delusi i tifosi interisti per come si è comportato andando via.
«Ho fatto quello che si aspettavano da me: vincere».

Adesso c’è la panchina del Real Madrid.
«Sarò ancora il migliore».

A Madrid si aspettano che ripeta il “miracolo” di Milano.
«Se le cose cominciano bene finiscono bene».

Che cos’ha provato mentre alzava per la seconda volta la “Coppa con le orecchie”?
«La voglia di alzarla per la terza volta. Tre Champions con tre squadre diverse: l’unico»

Sono state uniche anche le reazioni dopo la finale.
«Si sapeva che era la mia ultima partita con l’Inter».

L’Italia non l’ha mai amata
«Non mi hanno perdonato di avere dato autorevolezza all’Inter, che in termini mediatici è dietro il Milan e per il tifo viene dopo la Juventus».
Il giorno più bello di quest’anno “special”?
«La promozione di mia figlia Matilde jr».
Claudio Pollastri - avvenire.it

Ulivieri, il mister che fa correre i preti

Per fare l’allenatore di calcio, specie in Italia, ci vogliono spalle larghe, carisma e passione da vendere. Quando poi, a quasi 70 anni, si decide di diventare «direttore tecnico» della Nir (Nazionale italiana religiosi) allora occorre anche un po’ di «vocazione». E quella a Renzo Ulivieri, il «Renzaccio», non è mai venuta meno.

Così quando quattro anni fa Padre Leonardo Biancalani e i religiosi calciofili sparsi per le parrocchie e i conventi d’Italia, gli hanno chiesto di diventare il ct della loro Nazionale, Ulivieri non ci ha pensato su tanto e ha accettato. Debutto della Nir nel 2006 su un campo molto particolare: il carcere di Rebibbia. «Non mi ricordo se si vinse o meno, forse perdemmo, perché noi siamo una squadra di cuore e spesso porgiamo anche l’altra gamba, ma ho bene in mente una scena che mi toccò. Quel giorno fra Enzo, uno dei miei giocatori, nel terzo raggio di Rebibbia ritrovò un suo compagno d’infanzia e si abbracciarono. Ci siamo commossi tutti. E allora pensai, forse anche a un pallone riescono dei piccoli miracoli...».

Faccia d’attore, buona per la commedia all’italiana di Monicelli, il «mister», come lo chiamano tutti, ha il cuore tenero, «ma sul campo – avverte – non voglio noie, si corre e si suda. Punto». Così una volta al mese scatta il ritiro «calcistico spirituale» per questa specialissima nazionale che da bertinottiano considera una «rifondazione religiosa attraverso il calcio».

«Ragazzi correre, far circolare la palla, siete preti e frati mica calciatori. E ricordatevelo sempre, Maradona non abita qui...». Eccolo che viene allo scoperto il «maledetto» toscanaccio malapartiano, il comunista, il «mangiapreti». «Potevano aver pensato giusto su quasi tutto, ma io mangiapreti mai stato. Come tanti della mia generazione venuta su nel dopoguerra, sono cresciuto frequentando sia la Casa del popolo che la parrocchia. Alla prima devo la mia formazione umana e ideologica; quella spirituale e soprattutto culturale, mi deriva dalla frequentazione di don Giuseppe. È grazie a quel gran prete che ho imparato a leggere e scrivere, ad amare il latino, ad appassionarmi ai libri di Giorgio La Pira e don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa è il testo base che mi ha guidato in tutto il mio lungo percorso professionale».

Un cammino, quello del «mister» cominciato alla vigilia dei moti sessantottini nella squadra del suo paese, a San Miniato, e proseguito ininterrottamente per quarant’anni, attraversando tutta l’Italia, allenando da nord a sud, da Vicenza a Reggio Calabria, alla guida di 20 squadre diverse. Ultima panchina, quella della Reggina, stagione 2007-2008. Da poco ha riposto nell’armadio l’amuleto, il suo vecchio e consumato cappotto blu «quattro stagioni», con il quale si presentava regolarmente in campo. «Una volta a Ravenna l’ho indossato alla fine di giugno, testimone il cardinale Ersilio Tonini che sedeva accanto a me e mi guardava stupito... Guarda caso mi avevano squalificato anche quella domenica. Comunque nessuna superstizione, quel cappotto era solo un gioco». Anche questa avventura con la Nazionale religiosi è solo un gioco, ma forse anche un modo per stare più vicino a gente che parla con Dio tutti i giorni.

«Prima di ogni partita mister Ulivieri ci dice sempre: “Su ragazzi, una preghiera non fa mai male”. E così a centrocampo, mano nella mano, si recita insieme il Padre nostro», racconta padre Leonardo che – appesi gli scarpini al chiodo (infortunio alla spalla) – è diventato il presidente onorario della Nir. «La fede è una cosa seria e non si può mica confondere con una partita di pallone. Solo all’inizio della carriera mi capitò di chiedere a un prete se veniva a benedire la squadra con la motivazione: da settimane non c’è verso di fare gol. E il padre indignato mi rispose: “Renzo vergognati, tu pensi che il Signore debba scomodarsi per queste bischerate?”... Aveva ragione». Saggezza dell’uomo che i suoi colleghi hanno scelto come capo dell’Assoallenatori.

«Mi hanno liberato dalla tv, alla domenica il calcio ormai lo vedevo solo lì. Oggi invece grazie a questo incarico posso andare a seguire le partite allo stadio senza che nessuno possa dire: “È venuto a gufare per prendersi la panchina che salta”». Storie di cuoio vecchie e lontane, come le discussioni con Roberto Baggio ai tempi del Bologna, «finì che se ne andò, ma finché è rimasto parlavamo anche di buddhismo». Beghe di spogliatoio, come il litigio furibondo con Antonio Cassano, in un Samp-Reggina, ma poi la mano sempre tesa, pronta per il perdono. «Antonio quando ci siamo ritrovati mi disse: “Mister adesso che abbiamo fatto pace, facciamo un’altra bella cosa, quella multa che ci hanno data raddoppiamola e il ricavato lo doniamo alla famiglia di Adriano Lombardi (calciatore morto di Sla)... Sono i ragazzi come Cassano, quelli più difficili, che mi hanno stimolato di più a fare questo mestiere. In fondo penso che da quella panchina ho sempre cercato di portare dalla mia parte il “figliol prodigo”».

Nel mezzo del suo cammino però, ha incontrato anche tanti buoni samaritani, anime candide alla Damiano Tommasi. «Su tutti faccio due nomi: Lorenzo Minotti che è anche il padrino della mia bambina Valentina e Demetrio Albertini, vicepresidente della Federcalcio». Menti passate dall’università del calcio di Coverciano, dove Ulivieri presiede ai corsi che ogni anno diplomano i nuovi tecnici italiani. «Una scuola di alto livello in cui si cerca di insegnare che il “tecnico vero” è un punto di riferimento e un educatore che deve avere il carisma del capo senza però apparire tale. I calciatori devono riconoscerlo prima di tutto come una persona per bene».

Una figura in continua evoluzione quella dell’allenatore, ma per Ulivieri è fondamentalmente ancora quella che si leggeva nella dicitura del vecchio patentino: «maestro di vita». «Un ragazzo che gioca a calcio tra allenamenti e partite trascorre almeno 6-8 ore alla settimana con il suo allenatore, il quale corre il rischio di essere pure ascoltato. E se questo accade, vuol dire che ha fatto un lavoro superiore e sostitutivo spesso a quello della famiglia, perché il problema è che questi ragazzi in casa non parlano più. Il calcio dunque diventa uno strumento di comunicazione, aiuta a stare in gruppo, a non sentirsi emarginati e inoltre funziona da grande strumento terapeutico».

Da tempo infatti Ulivieri segue i ragazzi di un’altra squadra speciale quanto la Nir, la Matrix di Firenze, formazione composta da ragazzi e adulti con disabilità fisiche e psichiche. Il calcio non è una fede, ma è comunque un credo universale che ha i suoi comandamenti e in cima; Renzaccio, da ex «smoccolatore», mette il divieto di bestemmia in campo. «È un fenomeno di cattiva educazione, ma le squalifiche severe dell’ultimo anno sono servite a diminuire i casi di bestemmiatori su tutti i campi».

La riconquista di un senso civico può ripartire a anche dal rispetto delle regole di un gioco. «Ai giovani dico sempre che potremo vivere in un un mondo diverso e migliore di questo, solo se tutti ci si impegniamo a fare la nostra parte. La mia paura è che le nuove generazioni siano state abbandonate al loro destino e si stanno assopendo. Per risvegliarli occorre spiegargli che è molto più vantaggioso darsi agli altri, piuttosto che chiudersi nel proprio egoismo. Spegniamo la televisione, torniamo a parlare con i nostri figli e facciamogli capire che il bene più prezioso che esista è la felicità. E questa, deve spettare a tutti». Nessuna pretattica, sono i pensieri che arrivano dall’anima del mister che assicura: non ha nessuna intenzione di rubare il mestiere ai giocatori della Nir. «Su un pulpito sarei in fuorigioco. Io farò l’allenatore anche nell’aldilà. Mi sono informato e mi hanno assicurato che giocano a calcio pure lassù, dove ho tanti amici... A me basta un fischietto per gli allenamenti e una panchina da cui urlare per 90 minuti».
Massimiliano Castellani
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