Sport Land News: Basket Nba. Denver campione, Jokic il signore dell'anello

Basket Nba. Denver campione, Jokic il signore dell'anello


L’uomo che sussurra ai cavalli è stato di parola. Il gigante serbo Nikola Jokic si è caricato i Nuggets sulle spalle e Denver ha galoppato spedita verso il primo titolo Nba. La capitale del Colorado si estende a 1600 metri di altitudine ( Mile-High City, un miglio terrestre) ma mai aveva raggiunto la vetta più importante, l’Olimpo del basket. Ci sono volute le “manone” e il piede perno di questo 28enne ragazzone serbo di 211 centimetri per vincere l’agognato “anello” di campioni del torneo più celebre al mondo. La pallacanestro è uno sport di squadra, ma è innegabile che il trionfo porti soprattutto la sua firma. Jokic è stato stellare anche nella vittoria decisiva sui Miami Heat (94-89 in gara 5 e serie chiusa sul 4-1) coronando una stagione fantastica. Ha frantumato una serie impressionante di record individuali ed è stato nominato miglior giocatore (Mvp) delle finali. Ma non provate a dirglielo, la risposta ormai la conosciamo: «Onestamente questo premio non significa nulla per me. Dovrebbe essere assegnato ai miei compagni e agli allenatori che mi hanno messo nelle condizioni ideali per giocare a questo livello». Dice più o meno sempre così quando viene interpellato sul tema.


Da tre anni è il miglior giocatore della Nba (due volte Mvp, nel 2021 e nel 2022) ma lui proprio non riesce a stare sotto i riflettori senza far riferimento alla squadra che lo fa sentire a suo agio. «Voglio un titolo e voglio vincerlo con Denver. Perché gli Mvp e tutti i premi individuali sono trofei che qualcuno ti dà, che qualcuno sceglie tu debba ricevere. Invece il titolo lo vinci tu». Così aveva detto alla vigilia e così è stato. Umile, autoironico, schivo, ma con una dedizione che ha sorpreso molti addetti sotto canestro. Pochi scommettevano su quel giovanotto che pesava circa 130 chilogrammi. E anche il Partizan Belgrado finì per scartarlo. Del resto Jokic stesso ammise che all’epoca beveva «più di tre litri di Coca Cola al giorno ». La stessa chiamata in Nba fu una sorpresa. La notte del draft, quando fu scelto da Denver, mentre i fratelli brindavano a New York, Nikola invece era a casa, in Serbia, a dormire tenendo fede alla sua fama di pigrone. Lo ammise candidamente: «Sì, stavo dormendo, non pensavo nemmeno di arrivare alla Nba. E solo dal secondo anno tra i professionisti ho capito che potevo restarci. Nella prima stagione rimbalzavo come una trottola da una parte all’altra del campo senza capire molto di quello che mi stava succedendo. Un giorno ero così stressato che mi dissero di andare a casa a riposarmi. Invece ho pensato che mi avessero cacciato e in quel momento mi sono chiesto se fossi da Nba...». Eppure sin dal suo arrivo negli States ha iniziato a lavorare sodo sulla dieta e sul fisico. E oggi i risultati parlano per lui. Un giocatore a cui il campo da basket sta stretto.

Parliamo di uno che alla fine preferisce sempre la stalla al parquet. Non è più un mistero ormai: «I cavalli sono la mia valvola di sfogo. Mi permettono di tenere la testa lontana dal basket quando ne ho bisogno, di rimanere calmo e rilassato. Li amo davvero, penso che sarà quello a cui mi dedicherò una volta finita la carriera ». Ha perfino rivelato che una volta a settimana parla al telefono con “Dream Catcher”. Sua madre deve andare nella stalla per passarglielo perché “Dream Catcher” è il suo cavallo. E alla Gazzetta dello Sport rivelò: «Anche quando gioco seguo le corse, dei miei cavalli e degli amici che ho incontrato in Italia e negli Usa». È così Nikola Jokic, il successo non l’ha cambiato, è rimasto il ragazzino che a 16 anni lanciava appelli nel vuoto su Facebook: «C’è qualcuno che viene a giocare con me al campetto?». Zero commenti, nessuna risposta, eppure ancora oggi rilancia l’invito perché quando torna in Serbia lui torna sempre al campetto sotto casa a Sombor la sua città di origine: «È la cosa che amo di più fare in vita mia. Più che giocare in Nba. Credo che il “talento” che mi è stato dato dall’alto arrivi dall’aver giocato lì 3 contro 3, 2 contro 2». Riservato ma disponibile con tutti. A 18 anni fu costretto a saltare due partite per una le-sione al polso causata da tre ore di autografi fatti a 300 bambini, durante un evento della sua squadra. Sembra incredibile ma è andata proprio così: « Nella mia vita non posso deludere mai nessun bimbo» si limitò a commentare. Controcorrente anche pochi secondi dopo aver vinto il titolo. Mentre i Nuggets esultavano il suo primo pensiero è stato quello di andare a salutare uno a uno tutti gli sconfitti: «Miami è una grande squadra, coraggiosa, che rispetto molto. Per batterla è servito uno sforzo incredibile. Noi abbiamo giocato una partita pessima. Siamo stati imprecisi al tiro, ma abbiamo capito come dovevamo difenderci».

Sempre restìo nell’esternare le proprie emozioni, nemmeno un’impresa del genere sembra averlo scalfito più di tanto. Figurarsi l’ennesimo riconoscimento individuale. Jokic ha alzato il trofeo di Mvp con in braccio la figlia Ognjena, e ha spiegato: «Siamo una grande squadra, non abbiamo vinto individualmente, ma per chi avevamo al nostro fianco. Crediamo uno nell’altro e abbiamo rapporti profondi. Il trofeo è importante, abbiamo fatto una cosa incredibile, ma le relazioni umane lo sono di più». Nemmeno il tempo di gioire per un titolo storico, il suo sguardo è già altrove: « Missione compiuta, il lavoro è stato fatto, adesso possiamo andare a casa» il primo commento lapidario a caldo. Peccato però che gli abbiano subito ricordato che ci sarà ancora la parata trionfale per le vie di Denver. Ha reagito come chi subisce un gavettone all’improvviso. Un siparietto in cui però lui è apparso sincero nel replicare tra il divertito e il serio: «Quando ci sarà la parata? Giovedì? Nooo... Io devo andare a casa. Domenica ho la mia corsa dei cavalli. Non so se riuscirò ad arrivare in tempo...».

La vittoria della Nba sembra già un ricordo lui però ne è pienamente consapevole: «È una sensazione meravigliosa, ma come già detto, non è l’unica cosa che conta al mondo. Ok, ho vinto o meglio abbiamo vinto ma non è la cosa più importante al mondo. Ci sono molte altre cose che amo, che mi piace fare. Nessuno ama il proprio lavoro o magari qualcuno sì, ma sta mentendo». Il basket non è tutto e comunque c’è qualcosa che conta più del lavoro. Al primo posto non c’è dubbio c’è la sua famiglia. Quella di origine, di allevatori e cestisti, sia i genitori che i suoi due fratelli maggiori. E poi la famiglia che ha formato sposando Natalia, la sua fidanzata dai tempi del liceo. Un legame molto forte da cui è nata la piccola Ognjena, due anni a settembre. Anche quell’esultanza particolare, mostrando l’anulare, sembra un gesto di scherno. In realtà si riferisce a una canzone che canta insieme con la figlia. C’è poi un dettaglio che stupisce molto gli appassionati: sui lacci delle scarpe con cui gioca è solito legare la fede nuziale. A riprova che se l’anello di campione è un sogno, ce n’è un altro che vale anche di più.
avvenire.it

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Redazione Sport redazione.sport@simail.it)