(Repubblica.it) - Come esce di scena un vero uomo? Tra le lacrime o sputando e imprecando? Esiste ancora un senso della dignità che rifugge da questi estremi e si rifugia tra le conserte braccia dell'onorevole Takeshi Oneda, il ct giapponese che ha accolto l'eliminazione senza aprire un poro ed è tornato in campagna a scrivere versi?
A guardare quel che succede sui prati del Sudafrica, quando il sipario cala e per qualcuno la recita è finita sembrerebbe davvero di no. Vai con il pianto. O vai con il delirio. In alternativa, nel caso peggiore che terremo per ultimo, prima l'uno e poi l'altro.
La nazionale delle lacrime è fortissima. Tra i pali schiera il portoghese Eduardo, forse il miglior portiere visto ai mondiali, quello che da solo ha cercato di fermare la Spagna mentre i suoi compagni cincischiavano. Lo ha stroncato la sensazione di spreco: a che serve essere bravo se intorno a te c'è soltanto mediocrità? Nessuno si ricorderà adesso delle sue parate, dato che non sono state gradini di un'ascesa verso il cielo, ma soltanto tesori nascosti dietro una porta chiusa al piano appena sopra il girone eliminatorio. Momenti meravigliosi che, come diceva quello che ne aveva vissuti tanti, andranno persi, appunto, "come lacrime nella pioggia".
Questa è l'unica squadra ideale del torneo a cui partecipa un italiano: Quagliarella, il primo a cedere. Anche lui stroncato dalla sensazione dell'irripetibile. Quando mai gli ricapiterà di essere così in forma ma venire impiegato soltanto in extremis, in una squadra già fuori tempo massimo? Su un giornale sudafricano il suo gol è ancora nella classifica dei dieci più belli, ma ho visto un olandese leggerla e, indicando l'italiano, domandare: "Chi era questo?". Era.
Una foto mossa, poi l'obiettivo si è spostato altrove. Se non altro ha dei buoni compagni d'attacco. Al centro c'è addirittura Messi, che Maradona (allenatore di questa inconsolabile squadra) ha voluto descriverci nello spogliatoio, seduto sulla panca, sguardo a terra, intento a dimostrare il suo attaccamento alla maglia inzuppandola per venti minuti. E sull'altra fascia può spingere Cardozo, il paraguayano inguaiato che ha sbagliato il rigore ammazzaspagna. Pesava troppo quel pallone, quasi come quello di Asamoah Gyan, al 120' minuto dello storico quarto di finale ghanese e a un istante dalla leggenda. Impossibile farcela, altrettanto perdonarsi. Di tutti, per l'eccezionalità dell'evento, lui è l'unico comprensibile. Fin lì si era sentito infallibile dal dischetto, e così Cardozo, che aveva fatto piangere i giapponesi.
Ecco, se lo fa un emotivo latino, passi. Ma se vedi un samurai blu che si copre la faccia con la maglia per non mostrare il volto mentre si scompone, è finita. Davanti alle lacrime di Honda e Komano si è capito che la diga era rotta, l'alluvione imminente.
Molti potranno dire che è una reazione naturale, salutare anzi, come uno starnuto: quel che fa male è trattenerla. Nell'affermarlo si maschera il senso di disagio di fronte non a uno, ma a due, undici uomini che piangono. Le lacrime di Mourinho, certo. Almeno quelle erano di gioia. Il pianto felice è una bottiglia che tracima, è esploso il tappo, allegria. Quello davanti a un film (possibilmente in aereo, soli, a diecimila di quota) uno sfogo solitario. Il pianto triste in mondovisione è un'altra cosa, una resa, somma all'incapacità di farcela quella di farsene una ragione. Non ci sono stati lutti, ci saranno altre partite, forse altri mondiali, la vita offre rivincite sul campo, bisogna solo prepararsi per esserne all'altezza: chissà che fra quattro anni non ci sia, per la terza volta consecutiva, il quarto di finale Germania-Argentina. Magari per il Ghana il treno sarà più lento, ma è probabile che ripassi.
Certo, ci sono reazioni peggiori. Ci sono quelli che, avendo fatto la metà di Eduardo, invece di piangere di fronte alla telecamera sputano a chi le sta dietro, come ha fatto Cristiano Ronaldo. E quelli che invece di ringraziare il proprio pubblico in ogni angolo dello stadio, come ha fatto Honda, lo insultano alla maniera di Rooney. C'è Felipe Melo che nell'uscita del Brasile ha responsabilità molto più grosse rispetto a Cardozo per quella del Paraguay, ma si sente colpevole? No, proclama: "Delle critiche me ne frego". E fila via, sotto scorta però, perché in questo caso gli sputi e le offese sarebbero mirati a lui.
Poi c'è l'ultimo, l'agrodolce Suarez, el ladròn, quello della mano assassina che para il tiro ghanese sulla linea di porta e nega il gol della giusta vittoria. Non provoca soltanto il rigore, ma anche la propria espulsione, quindi l'esclusione da ogni eventuale futuro. Consapevole delle conseguenze, ma non dell'indicibile che sta per avverarsi, esce dal campo piangendo. Poi resta lì, grondaia, a guardare Asamoah Gyan che, presumibilmente, renderà la sua bravata vana e dannosa. Invece quello sbaglia. Ed ecco che Suarez esulta, rivendica e l'indomani tronfio annuncia: "Ora la mano di Dio sono io". Che se poi esistesse, quella mano, asciugherebbe le lacrime, tapperebbe le bocche, distribuirebbe qualche scapaccione e di nuovo tutti in campo, ad allenarsi.