Sport Land News: Se la filosofia dà un calcio in paradiso. Lo scrittore Auden interpreta il football come la risposta dell’uomo al determinismo che ne frena la libertà

Se la filosofia dà un calcio in paradiso. Lo scrittore Auden interpreta il football come la risposta dell’uomo al determinismo che ne frena la libertà

Se la filosofia dà un calcio in paradiso

Lo scrittore Auden interpreta il football come la risposta dell’uomo al determinismo che ne frena la libertà. Ma esistono molte letture: alcuni ci vedono una sublimazione dell’istinto umano per la caccia (fino all’arte della guerra: il rettangolo verde diventa il simbolo dei territori da conquistare), altri come un’iniziazione alla vita sociale

Lo sport più popolare del mondo metafora del rapporto con l’al di là: regole certe, un arbitro imparziale, l’unità della squadra, i nemici «necessari» al traguardo. Mentre si avvicina la fine dei Mondiali in Sudafrica un saggio di Bernhard Welte rilegge il gioco del «pallone» dai secoli antichi ai nostri giorni

DI PIETRO GIBELLINI
Avvenire 8 luglio 2010
Libro Filosofia del calcio
S i cominciò con Manlio Scopi­gno, l’allenatore che portò allo scudetto nel 1970 il Cagliari di Riva e Bonimba: l’epiteto di filosofo non so se gli derivasse da un diplo­ma o gli fosse dato honoris causa per le sue battute spiritose. Si fece ono­re coi piedi il brasiliano Socrates, cui si ispirò un film con Banfi, alias O­ronzo Canà allenatore nel pallone del sudamericano Aristoteles. Il les­sico calcistico ha poi inglobato la fi­losofia del 1-1-2 contrapposta al pen­siero del 4-3-3; mentre, a sentire i giornalisti sportivi, per vincere ser­vono più gli strizzacervelli che i pre­paratori atletici. Ma in questo delizioso libretto della Morcelliana, intitolato Filosofia del calcio (pp. 80, euro 8), il discorso è serissimo. Oreste Tolone, specialista di antropologia filosofica, ha tradot­to e raccolto due saggi di Bernhard Welte (1903-1983), maestro di studi filosofico-teologici all’università di Friburgo e pensatore di fama inter­nazionale. Invitato in Argentina nel 1978, dove si svolgevano i mondiali di calcio, tenne delle lezioni sul tema, cui aggiunse nel 1982 (l’anno del trionfo in Spagna di Zoff e Paolo Ros­si) un saggio sul gioco. La tesi, svi­luppata con grande eleganza e sot­tigliezza, è sorprendente: il successo del calcio sarebbe legato alla sua ca­pacità di immaginare in concreto un’immagine del mondo utopica, anzi escatologica. Un mondo di re­gole certe e condivise, un giudice­arbitro imparziale e incontestabile, una corale armonia con i compagni per il conseguimento del bene co­mune, una trasformazione dei nemici in avversari con cui disputare lealmente. Non solo: gli avversari, lungi dal­l’essere il male da vincere, sono l’alterità con cui occor­re dialogare, necessaria pre­senza perché il gioco possa aver luogo. Non è una vera utopia, un’immagine antici­pata di paradiso? La tesi è o­riginale e assai suggestiva, ma non è l’unica avanzata da pensatori e letterati per ca­pire la ragione del successo del gioco, sconfinato nel tempo e nello spazio. Ne dà conto Tolone nel saggio introduttivo che contestualizza il discorso di Wel­te e lo arricchisce – la metafora è d’obbligo – a tutto campo.

nnanzitutto ricapitola la storia del gioco con la palla, già noto ai greci antichi, dove non ebbe però ospitalità nelle Olimpiadi (come in quelle moderne, dove fu introdotto a denti stretti e mal tollerato perché più palese era il non-dilettantismo degli atleti). Passò poi ai latini, che lo consideravano un esercizio parti­colarmente utile ai legionari: occor­re ricordare infatti che la palla (co­stituita volta per volta da tele rigon­fie di paglia o di cenci, comprese ve­sciche di animali, o da una stessa ve­scica e dunque di forma per lo più o­vale) era l’oggetto da portare oltre la linea nemica utilizzando tutti i mezzi fisici, giusta come nel calcio fio­rentino del Rinascimento. Dove però l’adozione del termine calcio fa ca­pire che i piedi erano diventati stru­mento per colpire il pallone, oltre che gli stinchi della squadra rivale. Pare che proprio le legioni romane l’a­vessero introdotto in Inghilterra, do­ve lo sport nacque nella sua veste moderna nell’Ottocento, quando al­cuni college si accordarono sulla proibizione di prendere la palla con le mani, distaccandosi così dallo sti­le diffuso in altri collegi, a partire da quello di Rugby che diede il nome al­lo sport della palla ovale.

La «palla» divenuta sfera, avverte il curatore, è cuore del gioco nella lin­gua, che relega «calcio» allo scritto i­namidato, ma usa «pallone» nel par­lato quotidiano (e nei dialetti lom­bardi sopravvive ancora la dizione deformata di foot-ball, aggiungo). Passando poi alle interpretazioni a­vanzate per spiegare il successo di questo sport, Tolone le raggruppa in alcune teorie principali. La prima è una chiave pedagogica. Il gioco sa­rebbe una simulazione della società, al cui ingresso i giovani si prepare­rebbero senza i rischi di errori gravi, come appunto accade nelle simula­zioni. Imparerebbero la dinamica della alleanza, del rispetto delle re­gole, dell’impegno individuale e col­lettivo, a dosare generosità e calco­lo, rischio e prudenza, a usare qual­che astuzia consentita. Imparano in­somma a sapersi muovere nel grup­po degli amici e degli avversari.

Un’altra linea interpretativa lo vede come uno sfogo emotivo attraverso cui la società civile canalizza istinti primari sedimentati nei millenni. Il calcio surrogherebbe dunque l’i­stinto di caccia, individuale o di gruppo (buona mira, reparti coordi­nati), ovvero quello ad esso correla­to della guerra. Tant’è che le arene romane ospitavano tanto le venatio­nes

di bestie feroci che i combatti­menti dei gladiatori. La mira della freccia o il duello fisico verrebbero sostituiti dal proiettile inoffensivo e dall’abile dribbling.

Connessa a questa chiave, è l’interpretazione etologica, al­la Desmond Morris, che giu­stapporrebbe la passione degli uo­mini per l’agonismo e per la con­quista del territorio (in forma di ret­tangolo verde) al disinteresse per quello sport mostrato generalmen­te dalle donne, eredi delle ataviche raccoglitrici di bacche e frutti nella savana, e oggi appassionate di shop­ping.

Diversa invece la soluzione propo­sta da uno scrittore come Wystan Hugh Auden. L’uomo si sentirebbe intrappolato dalla rete deterministi­ca che frena la sua libertà e mortifi­ca i suoi bisogni creativi. Si trove­rebbe allora di fronte a due strade, quella della trasgressione sistemati­ca delle regole, secondo una deriva anarchica o propriamente crimina­le, o quella di crearsi delle regole tut­te sue, svincolate da ogni utilità pra­tica che non sia la gratifica in sé che il gioco, come ogni attività ludica, ri­serva ai suoi adepti. Qualche anno fa il collega Dànilo Mainardi tenne la lezione che a Ca’ Foscari accompagna la consegna dei diplomi ai neo-dottori di ricerca. E, portando vari esempi dalla sua e­sperienza di zoologo, arrivò alla con­clusione che chi dedica la propria vita allo studio riesce a prolungare lungo l’arco della vita quella e­mozione che i cuccioli provano nella magica stagione dell’infanzia. Sarebbe, in senso tecni­co, una neotenia , un a­nomalo protrarsi di com­portamenti immaturi che di solito appare pa­tologica e che invece, sposata all’esperienza dell’uomo cresciuto, di­venta una libera risorsa.

Vi è, in questa chiave, una valutazio­ne positiva, di tipo etico o spirituale, che fa capire come un campetto di calcio negli oratori di paese abbia forse tolto più di un ragazzo a vie sba­gliate. È in questa direzione che To­lone conclude il suo saggio, con pa­gine che introducono assai bene i due scritti di Welte: con il quale con­divide il merito di averci davvero fat­to capire che c’è una filosofia del cal­cio.

Dunque il calcio e il sapere sono co­niugabili, contrariamente a quanto farebbero supporre i Maradona e gli Adriano. Se ne consola chi, come il sottoscritto, lasciò il tendine rotuleo su un campo di calcio, giocando con i ragazzi quando aveva vent’anni e venti chili di troppo. Ronaldo riusci­rono a recuperarlo, almeno in parte. A chi scrive sono restati i libri e un po’ di nostalgia.