Pacifici e soprattutto attivi, a tutto campo. Potrebbe essere questo il fischio d’inizio della nuova sfida dell’Aia (Associazione arbitri italiani) sotto la presidenza di Carlo Pacifici. In Associazione dal 1975, l’ex arbitro della sezione di Roma, con un passato da dirigente in Unicredit è nato nel 1958, «da famiglia di origini norcine, il 22 maggio. Anche per questo sono devoto a santa Rita da Cascia, la cittadina dove ho organizzato l’ultimo raduno precampionato degli arbitri di Serie A e B», dice Pacifici che ai fischietti tricolori ribadisce il proclama del giorno del suo insediamento da n.1 dell’Aia: «È il tempo della responsabilità e dello scatto in avanti. Questo è il momento di scendere in campo tutti. Nessuno escluso, per rafforzare il nostro essere Associazione». Messaggio forte e chiaro che è arrivato a tutti i circa 33mila associati, ai quali spetta un compito arduo, oltre che numericamente oneroso: «Sono chiamati a dirigere 550 mila partite l’anno, dalla Serie A ai campionati giovanili provinciali, garantendone la regolarità e permettendo a tanti altri giovani di praticare sport». Molti di quei direttori di gara sono giovani che hanno scelto di fare l’arbitro principalmente per passione, accettando di affrontare trasferte, talvolta fortemente impervie, dietro semplice rimborso spese, che il nuovo corso ha appena provveduto ad aumentare del 23%».
Un segnale presidente Pacifici rivolto soprattutto a quei ragazzi che per arbitrare mettono a rischio anche la propria incolumità fisica a causa dei reiterati episodi di violenza che sono costretti a subire un po’ ovunque.
Purtroppo la pandemia ha moltiplicato quegli episodi. Il dato più inquietante è che il 90% di quei casi vedono come protagonisti in negativo calciatori e dirigenti. L’ultimo caso denunciato? È accaduto sabato scorso, in provincia di Novara: un ragazzo di 15 anni con doppio tesseramento, giocatore e direttore di gara, al termine di una partita di under 14 è stato aggredito dal padre di un calciatore che è entrato nello spogliatoio e ha colpito con un pugno al nostro ragazzo. Ma io mi domando: questo padre non ha pensato per un attimo che quel giovane poteva essere suo figlio?
Il caso Maignan dimostra che spesso padri e figli vanno allo stadio per cantare cori razzisti e insultare calciatori e tifosi avversari.
È uno scenario fortemente preoccupante. Ma spesso ci si dimentica che il più colpito resta sempre e comunque l’arbitro. Noi da tempo siamo una Associazione multietnica e i nostri ragazzi, in tutte le categorie, sono vittime di razzismo e di situazioni al limite della sopportazione umana.
Scusi Presidente, ma in caso di cori razzisti l’arbitro non può sospendere definitivamente la partita?
Il regolamento lo prevede. Ma se in Serie A, vedi appunto il caso Maignan, è difficile applicarlo per ragioni di ordine pubblico, nelle categorie inferiori, dove l’arbitro spesso è solo con se stesso e non ha nessuna protezione da parte delle forze dell’ordine, diventa praticamente impossibile. In quelle circostanze l’intelligenza del direttore di gara sta nel comprendere il clima di tensione e non peggiorare la situazione che si è venuta a creare. Io dico sempre che il bravo arbitro è quello che possiede la maggiore dose di empatia con l’ambiente in cui si trova.
Non osiamo immaginare cosa può accadere quando i vostri arbitri “speciali”, quelli affetti dalla sindrome di down scendono in campo…
In quei casi è nostro dovere tutelarli al 100%. Finora abbiamo optato per fargli arbitrare partite a “rischio zero”, come gli incontri del calcio della sezione paralimpica introdotta dalla Figc.
A proposito della Figc, il presidente Gabriele Gravina ha ribadito: «Saremo sempre al fianco degli arbitri, in tutte le battaglie: senza arbitri non c’è calcio».
L’Aia rappresenta un unicum a livello internazionale, perché come Associazione siamo all’interno della stessa Federcalcio. Un connubio che esiste da 113 anni a dimostrazione delle mura solide e resistenti, nonostante tutti gli attacchi che subiamo costantemente e da tutte le parti. Ma del resto già Ennio Flaiano aveva capito tutto quando già negli anni ‘60 diceva: «L‘italiano ha un solo vero nemico: l’arbitro di calcio, perché emette un giudizio». Chi giudica e decide, in un Paese come il nostro inevitabilmente viene visto come un elemento divisivo.
A dividere è anche il Var. E dopo aver scoperto che il nostro è un popolo di 60 milioni di ct lei ci informa che gli italiani «sono tutti varisti».
La mia battuta nasce dall’esperienza di vita romana: qui dopo quarant’anni si discute ancora del gol annullato al romanista Turone nella storica partita contro la Juventus. Da quando il Var è stato introdotto, nel 2017, per sanare “errori clamorosi”, come richiesto dall’originaria direttiva Fifa, noi numeri alla mano possiamo dire che ha funzionato. Gli errori sono diminuiti del 90% e ciò che sfugge al direttore di gara è davvero minimale. Oggi grazie al Var un gol clamoroso come quello di Muntari del Milan alla Juventus, con Buffon che ricaccia il pallone da dentro la porta, verrebbe convalidato immediatamente.
Ma presidenti e allenatori non si placano e sbottano al minimo errore arbitrale.
C’è chi usa il Var per polemiche strumentali, per mascherare le proprie responsabilità e lo fa perché erroneamente considera il supporto tecnologico come una moviola in campo, ma non è così. A Lissone nell’ultimo incontro con gli allenatori di Serie A e B è emersa la loro esplicita richiesta: chiediamo minori interventi del Var e più decisioni prese dall’arbitro in campo. Io credo che discutere insieme dei problemi aiuta a risolverli più in fretta. Il futuro del calcio passa dall’unione di intenti, in cui tutte le componenti devono lavorare per la stessa squadra.
La squadra arbitrale opera da tempo anche nelle scuole e nelle carceri.
Abbiamo appena sottoscritto un accordo storico con il Mim e il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. E la cosa che mi ha fatto più piacere è stato il riconoscimento della nostra attività etica e educativa. Con i nostri corsi insegniamo agli studenti, così come ai detenuti nelle carceri, il valore essenziale del rispetto delle regole. Quel rispetto migliora la convivenza civile, crea degli spazi di formazione, di recupero e di inclusione sociale. In campo poi, saper riconoscere e rispettare le regole del calcio aiuta a giocare anche meglio.
I vostri giovani arbitri, come gli universitari, ora vanno anche all’estero per l’Erasmus.
Si tratta di un progetto di scambio culturale, oltre che sportivo, partito lo scorso anno in collaborazione con Spagna, Portogallo, Svezia, Francia e Stati Uniti. Non solo giovani arbitri, ma anche dirigenti e coach qualificati, saranno impegnati nel supporto formativo dei aspiranti arbitri professionisti all’estero.
Progetti e orizzonti che magari convinceranno le nuove generazioni a iscriversi ai corsi per arbitro di calcio.
Fare l’arbitro è come fare un master su se stessi. È una crescita umana, oltre che sportiva. Se vogliamo, anche l’elemento del rischio è formativo, così come le scelte importanti e le decisioni rapide che vanno prese in campo. La solitudine che il giovane arbitro prova nello spogliatoio non può che irrobustire la sua personalità. Fare l’arbitro oggi, è una risposta forte a una generazione che preferisce osservare la vita degli altri dal piccolo schermo di un cellulare, mentre i nostri ragazzi dell’Aia hanno la possibilità di diventare protagonisti delle loro vite e lo fanno attraverso le 206 sezioni che sono altrettante famiglie sparse sul territorio nazionale.
Le tante donne-arbitro sono anche una risposta alle violenze e ai femminicidi dilaganti.
Sono circa 2.100 le nostre ragazze. Purtroppo per loro il percorso è ancora più difficoltoso perché devono superare il pregiudizio maschilista che si annida, da sempre, nel mondo del calcio. Molti uomini ancora non accettano che una donna possa arbitrarli. Le ragazze comunque si difendono bene attraverso un percorso meritato e meritevole e questo lo vediamo non solo in Maria Sole Ferreri Caputi che è arrivata ad arbitrare in Serie A ma in tutte le nostre associate che dirigono nelle varie categorie. Del resto abbiamo il maggior numero di arbitri donna internazionali, la Fifa ha classificato 12 italiane.
Questo conferma il vecchio teorema: gli arbitri italiani sono i “migliori al mondo”.
Io dico solo che nessuno è profeta in patria e che mentre da casa nostra arrivano solo critiche e veleni, fuori gli apprezzamenti si sprecano. Lo dimostra proprio il fatto che Collina è il capo degli arbitri della Fifa, Rosetti della Uefa e Rizzoli della Concacaf. Gli arbitri italiani coprono il 15% degli eventi internazionali, contro il 9% di quelli della Premier e il 5% della Liga e della Ligue1. I numeri non sono tutto, ma in questo caso danno l’idea del grande lavoro fatto e di quello che faremo.
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