Signori
si cambia. Il ciclismo scende dal treno delle classiche in linea e si
appresta a salire sul convoglio delle grandi corse a tappe.
Dall’adrenalina bruciata in poche ore si passa all’estenuante prova di
nervi spalmata su tre settimane. Cambia lo scenario e cambiano anche i
protagonisti. Per molti corridori la stagione è già praticamente finita,
resta solo qualche spicciolo da spendere alla prima occasione buona,
senza obiettivi prefissati, magari in una tappa del Tour o in qualche
corsa in linea minore.
I corridori da corse a tappe, invece, hanno appena iniziato a carburare e i primi test li hanno effettuati proprio nelle classiche delle Ardenne, quelle disegnate su misura per chi va forte in salita.
La Liegi Bastogne Liegi ha chiuso il ciclo delle grandi classiche e per molti – corridori e squadre – è già tempo di bilanci. E un primo resoconto si trova a farlo, inevitabilmente, anche il ciclismo italiano, ancora assente dai podi che contano.
L’Italia si interroga su una crisi che non sembra trovare vie di uscita nel breve termine. Perché i corridori italiani non latitano solo nelle zone nobili degli ordini d’arrivo ma, soprattutto, nelle fasi decisive delle gare. Ed è questo il fatto più preoccupante: non vincere dopo essere stati protagonisti lascia almeno uno spiraglio di ottimismo, mentre vedersi relegati al ruolo di semplici comprimari limita fortemente le prospettive.
E non è certo il finale della “Liegi” a schiarire gli orizzonti del pedale azzurro. Giampaolo Caruso e Domenico Pozzovivo sono stati grandissimi protagonisti. Armati più di grinta e coraggio che di potenza muscolare hanno “rischiato” di far saltare il banco: sono mancati appena cento metri, il tempo di un respiro al termine di una corsa lunga e dura come la “Doyenne”. Una trentina di pedalate dopo quasi sette ore di sella. Un nonnulla nel quale, però, c’è tutta la differenza fra chi vince e chi si ritrova (ai piedi del podio) escluso dalla storia.
Caruso e Pozzovivo non sono più giovanissimi, hanno già superato i 30 anni, quello che avevano da dare lo hanno già dimostrato in tanti anni di onorevolissima carriera. Il primo è un forte gregario che ha approfittato di un giorno di latitanza dei capitani stranieri. Il secondo è un buon scalatore, libero di fare la propria corsa quando l’arrivo è in cima a una salita. La loro gara è stata straordinaria, ma non cambia la prospettiva del pedale azzurro che non riesce ancora a trovare corridori solidi e affidabili per guardare serenamente al futuro. Anche i giovani più promettenti si perdono nell’infinita attesa di una maturazione che non arriva mai. Così l’Italia resta aggrappata a Vincenzo Nibali, l’unico corridore capace di mettere paura ai grandi del gruppo, e non solo nelle corse a tappe.
Fra meno di due settimane parte il Giro d’Italia, ma il siciliano non sarà in gruppo a difendere la maglia rosa conquistata lo scorso anno. Quest’anno Nibali ha messo nel mirino il Tour de France e i tifosi italiani al Giro dovranno digerire l’ennesima invasione di truppe straniere. La massima Aspirazione per i corridori italiani sarà una vittoria di tappa o un piazzamento che ci affretteremo a definire ”onorevole” per mitigare lo sconforto. In attesa che qualche giovane, come Fabio Aru, passi dallo stato di bella speranza a concreta realtà.
I corridori da corse a tappe, invece, hanno appena iniziato a carburare e i primi test li hanno effettuati proprio nelle classiche delle Ardenne, quelle disegnate su misura per chi va forte in salita.
La Liegi Bastogne Liegi ha chiuso il ciclo delle grandi classiche e per molti – corridori e squadre – è già tempo di bilanci. E un primo resoconto si trova a farlo, inevitabilmente, anche il ciclismo italiano, ancora assente dai podi che contano.
L’Italia si interroga su una crisi che non sembra trovare vie di uscita nel breve termine. Perché i corridori italiani non latitano solo nelle zone nobili degli ordini d’arrivo ma, soprattutto, nelle fasi decisive delle gare. Ed è questo il fatto più preoccupante: non vincere dopo essere stati protagonisti lascia almeno uno spiraglio di ottimismo, mentre vedersi relegati al ruolo di semplici comprimari limita fortemente le prospettive.
E non è certo il finale della “Liegi” a schiarire gli orizzonti del pedale azzurro. Giampaolo Caruso e Domenico Pozzovivo sono stati grandissimi protagonisti. Armati più di grinta e coraggio che di potenza muscolare hanno “rischiato” di far saltare il banco: sono mancati appena cento metri, il tempo di un respiro al termine di una corsa lunga e dura come la “Doyenne”. Una trentina di pedalate dopo quasi sette ore di sella. Un nonnulla nel quale, però, c’è tutta la differenza fra chi vince e chi si ritrova (ai piedi del podio) escluso dalla storia.
Caruso e Pozzovivo non sono più giovanissimi, hanno già superato i 30 anni, quello che avevano da dare lo hanno già dimostrato in tanti anni di onorevolissima carriera. Il primo è un forte gregario che ha approfittato di un giorno di latitanza dei capitani stranieri. Il secondo è un buon scalatore, libero di fare la propria corsa quando l’arrivo è in cima a una salita. La loro gara è stata straordinaria, ma non cambia la prospettiva del pedale azzurro che non riesce ancora a trovare corridori solidi e affidabili per guardare serenamente al futuro. Anche i giovani più promettenti si perdono nell’infinita attesa di una maturazione che non arriva mai. Così l’Italia resta aggrappata a Vincenzo Nibali, l’unico corridore capace di mettere paura ai grandi del gruppo, e non solo nelle corse a tappe.
Fra meno di due settimane parte il Giro d’Italia, ma il siciliano non sarà in gruppo a difendere la maglia rosa conquistata lo scorso anno. Quest’anno Nibali ha messo nel mirino il Tour de France e i tifosi italiani al Giro dovranno digerire l’ennesima invasione di truppe straniere. La massima Aspirazione per i corridori italiani sarà una vittoria di tappa o un piazzamento che ci affretteremo a definire ”onorevole” per mitigare lo sconforto. In attesa che qualche giovane, come Fabio Aru, passi dallo stato di bella speranza a concreta realtà.
Giuliano Traini