SPORT
Crescono i progetti del rugby dietro le sbarre
Massimiliano Castellani- avvenire.it
«Più
vi sono libri sul nostro scaffale, meno uomini mettiamo in prigione»,
scrive Josif Brodskij. Ma forse anche se mettiamo più palloni in campo
sarà più facile rieducare il maggior numero di detenuti.
La magia di una palla ovale, ha ridato entusiasmo a decine di reclusi del carcere torinese de le Vallette dove tre anni fa si è costituita “La Drola”. È il «quindici» dei detenuti che partecipa al campionato di Serie C regionale. Sono i “ragazzi dentro” selezionati da Walter Rista, giocatore fine anni ’60 e fondatore della onlus “Ovale oltre le sbarre”.
Una formazione composta per metà da nordafricani, rumeni, polacchi e colombiani. Un terzo dei giocatori è di cittadinanza italiana, ma tra loro il vero “straniero” è don Andrea Bonsignori, direttore della Scuola del Cottolengo che ne La Drola («in piemontese vuol dire roba scadente, ma è anche l’acronimo del grido di allarme “al ladro!”», spiegano) fino allo scorso anno rivestiva il duplice ruolo di giocatore e di vice dell’allenatore Stefano Rista, figlio di Walter.
Una squadra a gestione familiare, completamente autarchica, dal lavaggio delle maglie alla gestione del campo di gioco dove le partite si disputano al sabato, ovviamente a “porte chiuse” e tutte in casa.
«L’unica uscita di alcuni nostri giocatori è stato per l’evento in città “Sport per tutti”. Ogni passante poteva cimentarsi nel placcaggio e nell’andare in meta guidati dagli stessi atleti de La Drola, in permesso speciale per le vie di Torino», racconta don Andrea, entusiasta dei risultati ottenuti dall’attività sportiva svolta in carcere. «Per i detenuti che terminano il percorso riabilitativo si tentano vie integrative come l’inserimento in società di rugby o l’acquisizione del patentino di allenatore. Alcuni di loro, da quest’anno sono in affidamento al Cottolengo in qualità di tecnici dei ragazzi della nostra squadra, la Giuco ’97 che è gemellata con i professionisti del Viadana».
La palla ovale rende meno dura la detenzione e gli psicologi del carcere concordano che «grazie al rugby i detenuti sono molto più tranquilli e disciplinati».
Dopo il progetto pilota di Torino, la “rugby-terapia” funziona anche più a sud, nella Casa circondariale di Frosinone. Due anni di allenamenti e partite interne e ora la formazione di “alta sicurezza” (molti scontano pene fino a trent’anni) del penitenziario laziale domani debutterà nel campionato di Serie C. Da un’idea del responsabile Asi (Associazioni sociali e sportive italiane) Luigi Ciavardini e del presidente del “Gruppo Idee” Zarina Chiarenza sono nati i Bisonti Rugby. Presidente di questa squadra di iniziati allo «sport per gentiluomini» è una gentil donna, Germana De Angelis di “Gruppo Idee”.
«Il nome Bisonti è una provocazione, perché si tratta di un animale che è cacciato da tanti e sul quali mangiano in troppi – spiega Luigi Ciavardini –. Per i detenuti sentirsi “Bisonti” in campo, è un modo per dire a se stessi e alla società fuori che è giunto il momento di non venire più considerati carne da macello. Lo sport e, soprattutto, una disciplina come il rugby che insegna il rispetto delle regole e dell’avversario, può essere un’alternativa valida per rimettersi in gioco».
Nella rosa della squadra ci sono 40 giocatori guidati dall’argentino Alessandro Villanol inviato in “missione” dalla Fir (Federazione italiana rugby). Una formazione italianissima, «solo due gli stranieri e alcuni di loro, come il capitano Orobor che arriva dall’Africa, hanno avuto esperienze rugbystiche fuori di qui», dice Ciavardini.
La sperimentazione sta dando grandi risultati sul piano comportamentale e, così, l’Asi del presidente Claudio Barbaro sta per raddoppiare con un progetto di squadra di rugby femminile a Roma, nel carcere di Rebibbia. «In questo caso si tratta del tentativo di spezzare le grandi differenze in seno al carcere e portare le donne attraverso lo sport a sentirsi alla pari degli uomini», puntulizza Barbaro.
Uomini duri della palla ovale stanno per scendere in campo anche nella Casa circondariale di Monza. Allenati da Alessandro Geddo e Francesco Motta, i detenuti del Grande Brianza Rugby, «squadra composta per metà da italiani e l’altra metà da stranieri», oggi affronterà una formazione di Vecchie Glorie per quella che è la loro prima partita ufficiale. Mentre nel carcere minorile Beccaria di Milano il rugby viene praticato da anni dai giovani detenuti.
Il Grande Brianza è nato dopo una disfatta degli Aironi nell’Heineken Cup (82 a 0 allo stadio Brianteo di Monza contro il Clermont), alla quale i detenuti avevano partecipato in qualità di stampatori delle locandine del match. I vicini di casa del Rugby Monza e quelli del Velate, quella sera stessa promisero che avrebbero lanciato la palla ovale al di là delle mura del carcere. Promessa mantenuta. Dopo mesi di mischie mete e schemi, provati e riprovati, negli allenamenti settimanali per veri uomini duri (sessione di 100 flessioni e 200 addominali) ora il Grande Brianza ha scoperto che il sacrificio e la passione per la palla ovale è una metafora della futura libertà.
La magia di una palla ovale, ha ridato entusiasmo a decine di reclusi del carcere torinese de le Vallette dove tre anni fa si è costituita “La Drola”. È il «quindici» dei detenuti che partecipa al campionato di Serie C regionale. Sono i “ragazzi dentro” selezionati da Walter Rista, giocatore fine anni ’60 e fondatore della onlus “Ovale oltre le sbarre”.
Una formazione composta per metà da nordafricani, rumeni, polacchi e colombiani. Un terzo dei giocatori è di cittadinanza italiana, ma tra loro il vero “straniero” è don Andrea Bonsignori, direttore della Scuola del Cottolengo che ne La Drola («in piemontese vuol dire roba scadente, ma è anche l’acronimo del grido di allarme “al ladro!”», spiegano) fino allo scorso anno rivestiva il duplice ruolo di giocatore e di vice dell’allenatore Stefano Rista, figlio di Walter.
Una squadra a gestione familiare, completamente autarchica, dal lavaggio delle maglie alla gestione del campo di gioco dove le partite si disputano al sabato, ovviamente a “porte chiuse” e tutte in casa.
«L’unica uscita di alcuni nostri giocatori è stato per l’evento in città “Sport per tutti”. Ogni passante poteva cimentarsi nel placcaggio e nell’andare in meta guidati dagli stessi atleti de La Drola, in permesso speciale per le vie di Torino», racconta don Andrea, entusiasta dei risultati ottenuti dall’attività sportiva svolta in carcere. «Per i detenuti che terminano il percorso riabilitativo si tentano vie integrative come l’inserimento in società di rugby o l’acquisizione del patentino di allenatore. Alcuni di loro, da quest’anno sono in affidamento al Cottolengo in qualità di tecnici dei ragazzi della nostra squadra, la Giuco ’97 che è gemellata con i professionisti del Viadana».
La palla ovale rende meno dura la detenzione e gli psicologi del carcere concordano che «grazie al rugby i detenuti sono molto più tranquilli e disciplinati».
Dopo il progetto pilota di Torino, la “rugby-terapia” funziona anche più a sud, nella Casa circondariale di Frosinone. Due anni di allenamenti e partite interne e ora la formazione di “alta sicurezza” (molti scontano pene fino a trent’anni) del penitenziario laziale domani debutterà nel campionato di Serie C. Da un’idea del responsabile Asi (Associazioni sociali e sportive italiane) Luigi Ciavardini e del presidente del “Gruppo Idee” Zarina Chiarenza sono nati i Bisonti Rugby. Presidente di questa squadra di iniziati allo «sport per gentiluomini» è una gentil donna, Germana De Angelis di “Gruppo Idee”.
«Il nome Bisonti è una provocazione, perché si tratta di un animale che è cacciato da tanti e sul quali mangiano in troppi – spiega Luigi Ciavardini –. Per i detenuti sentirsi “Bisonti” in campo, è un modo per dire a se stessi e alla società fuori che è giunto il momento di non venire più considerati carne da macello. Lo sport e, soprattutto, una disciplina come il rugby che insegna il rispetto delle regole e dell’avversario, può essere un’alternativa valida per rimettersi in gioco».
Nella rosa della squadra ci sono 40 giocatori guidati dall’argentino Alessandro Villanol inviato in “missione” dalla Fir (Federazione italiana rugby). Una formazione italianissima, «solo due gli stranieri e alcuni di loro, come il capitano Orobor che arriva dall’Africa, hanno avuto esperienze rugbystiche fuori di qui», dice Ciavardini.
La sperimentazione sta dando grandi risultati sul piano comportamentale e, così, l’Asi del presidente Claudio Barbaro sta per raddoppiare con un progetto di squadra di rugby femminile a Roma, nel carcere di Rebibbia. «In questo caso si tratta del tentativo di spezzare le grandi differenze in seno al carcere e portare le donne attraverso lo sport a sentirsi alla pari degli uomini», puntulizza Barbaro.
Uomini duri della palla ovale stanno per scendere in campo anche nella Casa circondariale di Monza. Allenati da Alessandro Geddo e Francesco Motta, i detenuti del Grande Brianza Rugby, «squadra composta per metà da italiani e l’altra metà da stranieri», oggi affronterà una formazione di Vecchie Glorie per quella che è la loro prima partita ufficiale. Mentre nel carcere minorile Beccaria di Milano il rugby viene praticato da anni dai giovani detenuti.
Il Grande Brianza è nato dopo una disfatta degli Aironi nell’Heineken Cup (82 a 0 allo stadio Brianteo di Monza contro il Clermont), alla quale i detenuti avevano partecipato in qualità di stampatori delle locandine del match. I vicini di casa del Rugby Monza e quelli del Velate, quella sera stessa promisero che avrebbero lanciato la palla ovale al di là delle mura del carcere. Promessa mantenuta. Dopo mesi di mischie mete e schemi, provati e riprovati, negli allenamenti settimanali per veri uomini duri (sessione di 100 flessioni e 200 addominali) ora il Grande Brianza ha scoperto che il sacrificio e la passione per la palla ovale è una metafora della futura libertà.
Massimiliano Castellani