Lo
spread non è solo la bestia nera della nostra economia, ma anche del
sistema calcio italiano. Tra le quattro grandi Leghe europee, la Serie A
recita il ruolo scomodo del fanalino di coda con un pesante -265 punti
di spread rispetto alla Germania che detta legge con la Bundesliga,
modello finanziario del pianeta football. Non dorme sogni tranquilli
neanche la Premier con i suoi -199 punti di spread nei confronti del
campionato tedesco e non si può parlare neppure di andamento da
inseguitrice della Bundesliga registrando il -165 della Liga spagnola.
Frau Merkel può gongolare dinanzi ai conti in attivo della serie A di
Germania. La Bundesliga è il “benchmark” per tutti i campionati, gridano
gioiosi da Berlino.
«Non siamo i peggiori, la Francia sta peggio di noi, ma il trend sta decisamente crollando», spiegano Michele Uva e Gianfranco Teotino autori del saggio Il calcio al tempo dello spread (il Mulino-Arel).
Nel libro si analizza l’indice dello spread calcisitico che mette a raffronto i ricavi medi per club, il rapporto fatturato/stipendi, il patrimonio netto medio, il rapporto fatturato/passivo, l’affluenza media negli stadi ed il ranking Uefa. E qui la consolazione con la “quinta sorella” Francia che sta peggio di noi dura pochi paragrafi. Lo spread nell’ultimo quadriennio è aumentato passando dal -172% a quel -265% preoccupante.
Colpa di problemi tutti made in Italy: nonostante la crisi economica, infatti, l’industria del calcio è cresciuta dal 2006 al 2010 del 42%. Se la Bundesliga ha 97 milioni di entrate medie per club, la serie A si ferma a 77,7 milioni. Il gap per quanto riguarda il patrimonio netto medio per club è di addirittura 41,8 milioni contro 7,5. Ma i tedeschi ci superano anche nel numero di spettatori presenti in media allo stadio (42.100 contro 23.500). «Non possiamo prendere il modello tedesco e portarlo in Italia. Ci vuole cultura e sviluppo della passione calcistico», rileva Teotino. La Serie A se la passa male anche nei confronti della Liga spagnola.
Nel 2010-2011, ad esempio, il Barcellona ha avuto 110,7 milioni di euro di entrate da gara, la Roma 17,6 milioni. Nella stagione 2002-2003 i due club avevano fatturavano rispettivamente 41,8 e 41,2 milioni. «La riforma del calcio tedesco è singolare che avvenga nel momento in cui mette mano al suo comparto manifatturiero - spiega Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi -. Il prodotto italiano si vende all’estero per la sua qualità, quanto è avvenuto però negli ultimi mesi non è uno spot per il nostro calcio». Gli scandali del calcio fanno quindi male anche ai suoi bilanci. E poi c’è la perenne questione degli stadi. «È fondamentale il tema della patrimonializzazione delle società di calcio - prosegue Mussari -. Uno stadio se rende diventa patrimonio utile, integrato con le attività che producono reddito, a prescindere dal calcio. Non vale però l’idea che per tanti stadi ci siano tanti centri commerciali».
A difendere con orgoglio il calcio italiano ci pensa il presidente della Figc, Giancarlo Abete. «Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contatò, affermava Einstein. Ci sono responsabilità che non sono oggetto di una valutazione quantitativa. Oggi nonostante le difficoltà l’Italia al 4° posto del ranking Fifa. Non mi risulta che il nostro Paese sia al 4° posto per condizioni ambientali e attrazione d’investimenti. Se a livello di club siamo al quarto posto in Europa, dobbiamo dire che il mondo dello sport e del calcio italiano è sempre entrato dalla porta principale.
Lo spread? Nel calcio c’è, ma opera su patrimoni privati di singole persone». È indubbio però che la crisi sgonfia il pallone italico. «Ci sono tante criticità - conferma Abete -, ma bisogna farsene carico. La posizione nel contesto intenzionale è di grande spessore. Poi ci sono alcune criticità strutturali, come gli stadi». Per questo però si deve muovere la politica. «Mi dispiace dover dire che è stata una legislatura deludente - ammette Enrico Letta, segretario dell’Arel e deputato Pd - . Speriamo che la prossima sia costituente per il mondo dello sport».
«Non siamo i peggiori, la Francia sta peggio di noi, ma il trend sta decisamente crollando», spiegano Michele Uva e Gianfranco Teotino autori del saggio Il calcio al tempo dello spread (il Mulino-Arel).
Nel libro si analizza l’indice dello spread calcisitico che mette a raffronto i ricavi medi per club, il rapporto fatturato/stipendi, il patrimonio netto medio, il rapporto fatturato/passivo, l’affluenza media negli stadi ed il ranking Uefa. E qui la consolazione con la “quinta sorella” Francia che sta peggio di noi dura pochi paragrafi. Lo spread nell’ultimo quadriennio è aumentato passando dal -172% a quel -265% preoccupante.
Colpa di problemi tutti made in Italy: nonostante la crisi economica, infatti, l’industria del calcio è cresciuta dal 2006 al 2010 del 42%. Se la Bundesliga ha 97 milioni di entrate medie per club, la serie A si ferma a 77,7 milioni. Il gap per quanto riguarda il patrimonio netto medio per club è di addirittura 41,8 milioni contro 7,5. Ma i tedeschi ci superano anche nel numero di spettatori presenti in media allo stadio (42.100 contro 23.500). «Non possiamo prendere il modello tedesco e portarlo in Italia. Ci vuole cultura e sviluppo della passione calcistico», rileva Teotino. La Serie A se la passa male anche nei confronti della Liga spagnola.
Nel 2010-2011, ad esempio, il Barcellona ha avuto 110,7 milioni di euro di entrate da gara, la Roma 17,6 milioni. Nella stagione 2002-2003 i due club avevano fatturavano rispettivamente 41,8 e 41,2 milioni. «La riforma del calcio tedesco è singolare che avvenga nel momento in cui mette mano al suo comparto manifatturiero - spiega Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi -. Il prodotto italiano si vende all’estero per la sua qualità, quanto è avvenuto però negli ultimi mesi non è uno spot per il nostro calcio». Gli scandali del calcio fanno quindi male anche ai suoi bilanci. E poi c’è la perenne questione degli stadi. «È fondamentale il tema della patrimonializzazione delle società di calcio - prosegue Mussari -. Uno stadio se rende diventa patrimonio utile, integrato con le attività che producono reddito, a prescindere dal calcio. Non vale però l’idea che per tanti stadi ci siano tanti centri commerciali».
A difendere con orgoglio il calcio italiano ci pensa il presidente della Figc, Giancarlo Abete. «Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contatò, affermava Einstein. Ci sono responsabilità che non sono oggetto di una valutazione quantitativa. Oggi nonostante le difficoltà l’Italia al 4° posto del ranking Fifa. Non mi risulta che il nostro Paese sia al 4° posto per condizioni ambientali e attrazione d’investimenti. Se a livello di club siamo al quarto posto in Europa, dobbiamo dire che il mondo dello sport e del calcio italiano è sempre entrato dalla porta principale.
Lo spread? Nel calcio c’è, ma opera su patrimoni privati di singole persone». È indubbio però che la crisi sgonfia il pallone italico. «Ci sono tante criticità - conferma Abete -, ma bisogna farsene carico. La posizione nel contesto intenzionale è di grande spessore. Poi ci sono alcune criticità strutturali, come gli stadi». Per questo però si deve muovere la politica. «Mi dispiace dover dire che è stata una legislatura deludente - ammette Enrico Letta, segretario dell’Arel e deputato Pd - . Speriamo che la prossima sia costituente per il mondo dello sport».
Angelo Marchi - avvenire.it