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Curiosità e pronostici del Mundial. L'Italia non è tra le favorite

tratto da Terra
Alessio Nannini

MONDO. È iniziato venerdì il primo Campionato di calcio che si gioca nel continente nero. Partono in pole position Spagna e Brasile ma la sorpresa può essere dietro l’angolo, come insegnano molte edizioni precedenti. Il bizzarro caso di Lippi, allenatore detentore del titolo che fra un mese lascerà la panchina a Prandelli per rinnovare una nazionale invecchiata.

Qualcosa di strano nel Campionato mondiale di calcio deve pur esserci, perché lì accade quello che in altri contesti si verifica con somma difficoltà: tifosi seduti senza divisioni di parte, donne e bambini come si stesse in gita fuori città, calciatori contenti per il solo fatto di avere indosso una maglia con lo stemma nazionale sul cuore. Succede pure che il più forte non vinca, e che anzi a trionfare sia chi ha tutto contro: stampa, politica, pronostico; fuorché la sorte perché si sa, con la virtù si eccelle ma senza fortuna si è sconfitti. Siamo in Africa per la prima volta, e benvenuti a tutti: agli occidentali che nei secoli presero il continente per sostenere e aumentare il benessere pàtrio, ai sudamericani che per una volta giocheranno con la stagione di casa, e agli stessi continentali che potranno finalmente cercare un’affermazione che manca dai tempi del Camerun di Roger Milla. Se in Germania, Corea e Giappone, Francia, i nomi delle candidate alla vittoria finale erano limitati a due o tre nomi, a Johannesburg il pensiero che possano arrivare a giocarsi la coppa due sorprese non è peregrino. Senza perdersi in disamine tecniche e tattiche, ecco la parola delle agenzie di scommesse, che solitamente sanno essere una buona bilancia: Spagna e Brasile alla pari, poi Inghilterra e appresso l’Argentina; seguono Olanda, Germania e Italia, Francia. Maglia nera all’Algeria: si punta un euro, se ne vincono seicento (ma, nel caso, conservatelo per una caramella, vi sarà più dolce). Altra nota per gli amanti del genere: la vittoria dei favoriti è stranamente un evento poco presente negli albi. Solo nel recente Mondiale nippo-coreano il pronostico fu rispettato (ma quello fu il campionato più discusso e brutto dai tempi di Argentina 1978); per il resto è stata una squadra di prima fascia sì, ma di sordina a festeggiare.

Il massimo dal minimo
Tuttavia a noi italiani, di questa tendenza, occorrerà non fare legge. Ci troviamo a Pretoria con lo stesso fuso orario e lo stesso allenatore di quattro anni fa, appesantiti di una stellina sul petto (e guai a gonfiarlo) ma con la coscienza più leggera. Allora, in Germania, tra le cartoline nel bagaglio infilammo l’alba di Calciopoli; oggi siamo al crepuscolo di quella triste parentesi, che forse a guardar bene la nostra storia calcistica soltanto una parentesi non era. Dei campioni tedeschi è rimasta una nutrita colonia, seconda la tradizione che fu di Bearzot in Messico 1986: Buffon, Zambrotta, Cannavaro, Camoranesi, Gattuso, De Rossi, Pirlo, Iaquinta, Gilardino. Nove, elencati in ordine di ruolo. Tanti, ma non troppi. Alcuni fra questi non metteranno piede nel rettangolo di gioco, ma saranno utili a fare ciò che Marcello Lippi ha ritenuto fondamentale: il gruppo. È la prova pratica che Arsene Wenger, un signore due volte dottore in ingegneria ed economia, e che ha trascorso gli ultimi anni ad allenare i ragazzetti di Londra sponda Arsenal, ha saputo sintetizzare felicemente così: gli italiani ottengono sempre il massimo dal minimo. Basterà? Un poco di pazienza, e lo sapremo. Intanto abbiamo avuto il favore dell’urna. Paraguay, Nuova Zelanda, e Slovacchia non sono un granché, e altri raggruppamenti promettono più spettacolo (la Francia con il giovane Messico, i padroni del Sudafrica e l’imperscrutabile Uruguay; la sfida fra Portogallo e Brasile; Germania e Serbia).

Mancano i precedenti ufficiali con due delle tre; battemmo gli oceanici in amichevole lo scorso anno per quattro a tre, con in scena la fiera degli orrori difensivi, e gli altri tre a zero quando Hamsik, l’unica stella slovacca, aveva appena dodici anni - e oggi ne ha ventitrè. Contro il Paraguay vincemmo invece nel 1950 per due a zero, prima di fare fagotto e tornarcene a casa a muso lungo. Era il torneo brasiliano, quello della tragedia del Maracanà e del grande Torino di Valentino Mazzola. Questa formidabile squadra, che dava nove undicesimi alla maglia azzurra, era scomparsa sulla collina di Superga un anno prima, sicché andammo in Sudamerica a ranghi ridotti e in nave per timore del volo (e seminando palloni per tutto il tragitto transoceanico). Male contro la Svezia, bene per l’appunto contro i paraguayani; ma non fu sufficiente, e ritornammo a Napoli in crociera e senza più palloni (per il sollievo degli altri passeggeri). Ai favoritissimi padroni di casa in quell’occasione andò assai peggio: fuori noi e gli inglesi, i brasiliani arrivarono all’ultima partita forti di tredici reti realizzate nei precedenti due incontri, di due risultati su tre nella finale (era allora un girone all’italiana e non un incontro secco ad assegnare la coppa), di duecentomila spettatori già in festa, e di un palchetto d’onore già pronto per celebrare la festa carioca. Successe invece che la malizia tattica degli uruguagi la spuntò sulla tecnica del Brasile per due a uno, e fu un disastro. Meglio, il cosiddetto disastro del Maracanà: dieci infarti sugli spalti al triplice fischio, l’allora presidente della federazione internazionale Jules Rimet che premiò quasi di sottecchi i campioni celesti, questi ultimi che scapparono in fretta e furia a festeggiare a Montevideo, e decine e decine di suicidi fra i tifosi. Il governo dichiarò tre giorni di lutto e l’imposizione scaramantica a cambiare la maglia della nazionale: addio al bianco rotto appena dal blu del bavero. La nuova casacca avrebbe ripreso i colori della bandiera, cioè il verde oro che conosce ognuno. Disse un giorno Alcides Ghiggia, funambolica ala dell’Uruguay (poi oriundo in Italia) marcatore su Barbosa per il definitivo vantaggio: «Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa e io».

Il protagonista Ghiggia aveva indossato il sette. Due edizioni dopo, in Svezia, gli occhi di tutti cominciarono a posarsi sulla maglia numero dieci, che all’epoca era vestita da un giovane brasiliano di nome Pelè. Piccolo ma dotato di ottimo stacco, rapido e soprattutto molto abile nel palleggio e nel calcio, oltre che favorire la conquista di tre titoli mondiali, consacrò negli esperti e negli spettatori del pallone che il migliore di una squadra, colui cioè in grado di segnare il destino di una partita, dovesse portare il dieci sulla schiena. Da allora in poi è a questa doppia cifra che si guarda per avere idea della fantasia di una compagine. E non a torto: Charlton, Maradona, Zico, Mattheus, Baggio, Zidane (fece eccezione Cruijff, che scelse il quattordici perché a quell’età vinse il suo primo campionato). La qualità di una competizione si vede da questo; non dai numeri cinque o sei, ovvero i difensori che fermano le giocate avversarie, dai numeri quattro od otto, che interrompono le trame altrui per fare ripartire il gioco; neppure dai numeri uno, sette, o nove sebbene questi siano parte necessaria per la marcatura o per il suo acrobatico impedimento. Conta chi è il dieci.

Quel numero 10
Vediamo allora cosa ci aspetta a partire dai più quotati: Kakà per il Brasile, Cesc Fabregas per la Spagna. Il primo l’ha tolto a Ronaldinho, suo predecessore non convocato da Dunga, lasciando il numero otto mostrato in Germania al più rude Gilberto Silva. Il secondo, se l’è visto consegnare dall’alto ma è un’anomalia, perché lo spagnolo più che il pennello dell’artista ha compasso e squadra del geometra (ma di ottima qualità, si intende). Fabio Capello, l’italiano a Londra, avrà il suo campione in Wayne Rooney; corsa, scatto, fisico, tiro. Un dieci per opportunismo, che in altri tempi avrebbe avuto l’undici o il nove a seconda della posizione in campo. In Argentina fila tutto liscio perché a dare suggerimenti è stato Maradona, che nonostante tutto qualcosa ne saprà: è Lionel Messi, e niente da dire. Stesso pensiero per l’olandese Wesley Sneijder, fresco campione europeo: rapido, ambidestro, forte in precisione e potenza. I tedeschi, invece, che per onestà di memoria mai hanno fatto della fantasia la loro peculiarità nazionale, hanno lasciato che a decidere fossero i criteri di reparto e di guida alfabetica. Così la maglia del creativo è toccata a Per Mertesacker, centrocampista non proprio di velocità e guizzo (del resto, con quasi cento chili e duecento centimetri, non ci si può aspettare l’agilità di una lepre). L’erede di Zidane è invece Franck Ribery, ma nella finale di Berlino di quattro anni fa correva con il ventidue; ma anche allora fu un vezzo. Il francese è prossimo al sette ben più di Florent Malouda, e come anche Cristiano Ronaldo, che il sette nei club lo ha sempre cercato salvo rifiutarlo quando tutti nel Portogallo glielo volevano offrire.

Dunque ricapitolando: Kakà, Fabregas, Rooney, Messi, Sneijder, Mertesacker, Ribery, Ronaldo. Tre palloni d’oro (l’ex milanista, il portoghese, il piccolo del Barcellona), altri due in lizza (l’attaccante del Manchester e l’olandese); non ci si può lamentare. Certo, se noialtri avessimo ancora Totti o Baggio la faccenda sarebbe stata ancora migliore - ma coraggio, Antonio Di Natale.

Qualche pronostico
Anche perché il torneo ci sorride nell’ordine delle partite: esordiamo con il Paraguay lunedì questo, poi i neozelandesi e infine la Slovacchia. Fare sei punti nei primi due incontri vorrebbe dire mettere in cascina il primo posto e far riposare i migliori in attesa di sapere l’avversario negli ottavi di finale. Vale a dire una fra Olanda, Danimarca, Camerun, Giappone - elencate per pronostico. Gli olandesi hanno rapidità e qualità in avanti (Sneijder, il recuperato Robben, Van Persie), meno capacità nel reparto difensivo. Danesi e camerunensi hanno i primi un collettivo senza eccellenze (brilla lo juventino Poulsen fate un po’ voi), i secondi un’eccellenza (Samuel Eto’o) senza adeguato collettivo. Ipotizzando il primo posto olandese e l’eliminazione nipponica, ce la vedremo o con i danesi o con gli africani. In Germania, dopo l’Australia negli ottavi, affrontammo ai quarti l’Ucraina di Shevchenko; e fu la più semplice delle partite (zero a tre) nonché la svolta, quella che diede agli azzurri la consapevolezza della loro forza. Stavolta, e sempre con opportuna gestualità apotropaica, avremo una fra Spagna, Brasile, e Portogallo. Più avanti ancora Argentina, semifinalista accreditata per facilità di calendario e forza (nonostante Maradona).

Però la storia dei campionati del mondo insegna che il pronostico ha la gamba corta, e vale appena per il girone di avvio e la prima partita a eliminazione diretta. Tutto il resto è un capriccio, una questione di centimetri ed episodi. Nel Mondiale di Francia i transalpini passarono ai rigori ai quarti, e agli ottavi rischiarono contro il Paraguay guidato nell’occasione da Cesare Maldini. In Italia nel 1990 i tedeschi spinsero fuori gli inglesi dal dischetto in semifinale; noi poi ne vivemmo delle belle, e a lungo. Fummo sì campioni dagli undici metri quattro anni fa, ma fu un esorcismo lungo sedici anni e cinque edizioni: Italia 1990 contro l’Argentina in semifinale, Stati Uniti 1994 contro il Brasile in finale, Francia 1998 contro i padroni di casa ai quarti. Fa eccezione la Corea del 2002, ma il cuore duole ancora e per altri (e altrui) demeriti. Morale: chi vince lo fa soffrendo e rischiando l’eliminazione per un soffio. E ciò perché l’uniformità della rassegna iridata si compone di irregolarità. A oggi ogni nazione organizzatrice, non sempre all’altezza della competizione, ha ben figurato (e talvolta anche troppo): sei i titoli dei paesi ospitanti (Uruguay, Italia, Inghilterra, Germania, Argentina, Francia). Addirittura prodigiosi i risultati ottenuti da Cile (terzo posto), Svezia (in finale), Corea del sud (quarto posto), e Stati Uniti (ottavi). Se vi è certezza, non è Coppa del mondo.

Certo è invece l’addio di Lippi, unico fra i pari a poter tentare il filotto mondiale che riuscì nella storia soltanto a Vittorio Pozzo. Poi a luglio cederà la tuta a Cesare Prandelli, il quale probabilmente aprirà alla nuova generazione: Marchetti e Sirigu alle spalle di Buffon, con Bonucci (che pure è in Sudafrica) e Ranocchia ad affianchersi a Chiellini, Santon e Motta e forse Rosi sulle fasce, in mezzo al campo Aquilani (che, statene certi, tornerà nell’ovile), Poli e Montolivo (anch’egli a Pretoria), e Balotelli. Il veterano, ma solo per ragione anagrafica, potrebbe essere Antonio Cassano, che fra un mese compirà ventotto anni. Ironia del destino: il calciatore nato nella notte in cui Zoff alzava la coppa al Santiago Bernabeu di Madrid, non è finora riuscito a prendere mai parte a un Mondiale. Non gli mancherà modo per godersi l’estate, e fra l’altro può dirsi in buona compagnia: Cambiasso e Zanetti, Ronaldinho e Adriano, Raul, Walcott, Frey e Benzema. Assenze ingiustificate o ingiustificabili, cui si sommano gli infortunati Beckham e Owen, Essien, Ballack. Ne verrebbe fuori una bella squadra.

Ma tra scelte tecniche azzardate e sfortune di gioco, a chi a ogni quadriennio osserva, tifa, e legge di quel che accade dentro e fuori a un campo di calcio lontano dalla sua poltrona, scaramanticamente sempre quella, alla fine non avrà pena per nessuno fra i succitati; bensì un vuoto per l’equilibrio e il garbo esemplari di Corrado Sannucci, collega (ma a scriverlo si pecca di presunzione) de La Repubblica morto nel 2009.