Pietro Mennea
Quarant’anni fa un uomo bianco, sghembo, ossuto, nervoso nel suo fascio di muscoli perennemente in tensione cominciò a correre nella corsia numero 4 della pista dello stadio Azteca di Città del Messico. Fu uno sparo nella notte, un urlo trattenuto; fu la corsa più straordinaria nella storia dell’atletica, perché la più improbabile, seminata ad ogni passo di un dolore che arrivava da un posto lontanissimo. Il 12 settembre di quarant’anni fa Pietro Paolo Mennea stabiliva il record del mondo sui 200 metri. 1,8 metri di vento a favore. Primi cento metri in 10'34 “manuali”. Secondi cento metri in 9'38. Record del mondo: 19'72.
Il primato precedente apparteneva all’americano Tommie Smith - sì, quello che con John Carlos alzò il pugno guantato alle Olimpiadi del 1968 - che aveva fermato il cronometro a 19'83. Mennea lo migliorò di 11 centesimi, il tempo di un respiro. Alla fine della corsa un giornalista gli chiese: «C’è qualcuno più felice di lei?». Mennea rispose: «Mio padre».
In Messico era primo pomeriggio, le 15.15; in Italia le 23.15. Sulle gradinate dello stadio c’era poca gente, sperduta qua e là. Mennea aveva in mente una cosa sola: raggiungere il prima possibile la massima velocità e mantenerla, fin quando ne sarebbe stato capace. Quel giorno - con la pettorina numero 314 cucita sul petto - Mennea aveva 27 anni, l’anno dopo - alle Olimpiadi di Mosca - avrebbe vinto l’oro con un’altra gara da leggenda.
Era nato da una famiglia modesta a Barletta, figlio di un sarto che aveva trovato lavoro in ospedale; fu facile appiccicargli - in quegli anni di migrazioni dal Sud al Nord - l’etichetta di “Figlio del Sud”. Mennea la scansò, come rifiutò - nella sua vita da “hombre vertical” - i luoghi comuni dell’uomo che cerca il riscatto sociale nello sport e fugge la miseria.
La sua è stata una carriera lunghissima, diciassette anni in fuga dal 1971 al 1988: 3 volte campione italiano sui 100 metri, ben 11 volte sui 200 (la prima nel 1971, l’ultima nel 1984.) Mennea è morto nel 2013, il primo giorno di primavera. Nel dopo-carriera è stato molte cose. Ha conseguito quattro lauree (Scienze Politiche, Giurisprudenza, Diploma Isef e Scienze dell’educazione motoria, Lettere), ha esercitato la professione di avvocato e di commercialista, ha pubblicato numerosi libri, sempre finalizzati alla divulgazione della cultura sportiva e alla lotta al doping, ha insegnato all’Università, è stato eurodeputato a Bruxelles dal 1999 al 2004.
È stato un corridore eccezionale, resistente a tutto, precursore dei metodi moderni di allenamento (il suo allenatore era il professor Carlo Vittori), ma anche e soprattutto una macchina da corsa. È stato campione tra i campioni, simbolo di un’Italia sportiva che annoverava poster generazionali come Felice Gimondi, Sara Simeoni, Adriano Panatta, Gustav Thoeni. Uomini che portavano addosso gli impacci e pudori della generazione post guerra.
Se quest’uomo scarno e sempre controvento ha insegnato una cosa, ai tanti che dopo di lui, si sono infilati di corsa sulla sua scia; quel qualcosa è stato un principio elementare: la fatica non è mai sprecata. Il suo record del mondo sui 200 metri è stato migliorato prima un paio di volte da Michael Johnson nell’estate del 1996 e poi da Usain Bolt, che a Berlino - dieci anni fa - ha spostato il limite umano a 19'19.
Il record di Mennea ha resistito 17 anni, ma la sua corsa non si è ancora fermata. Nella memoria degli italiani Mennea è ancora un lampo, una folata di vento, un contorno storto che arriva al traguardo senza la consolazione di un sorriso. E quel 19'72 è ancora la miglior prestazione europea.
Avvenire