Reja, mille giorni di calcio e di me
da Avvenire
Mille giorni di te e di me, sono quelli tra Edy Reja e il calcio. È il più longevo degli allenatori d’Italia (il 2° in Europa dopo Mircea Lucescu, luglio 1945), 71 primavere il prossimo 10 ottobre, ma, per fisico asciutto e mentalità, ne dimostra quindici di meno. Traguardo delle mille panchine tagliato domenica a Marassi con la sua Atalanta (contro il Genoa, congedo, forse, con vittoria) e ora, dopo la seconda salvezza di fila ottenuta a Bergamo lo aspetta un altro arrivo importante: «Quello di una tappa speciale in bicicletta: dal Santuario di Caravaggio a Lucinico, il mio paese in provincia di Gorizia».
Trecentoquaranta-trecentocinquanta km, ci vorranno almeno due giorni...
«Un’altra impresa lo so - sorride - ma è un voto che ho fatto alla Madonna di Caravaggio che mi è sempre stata vicina, specie negli ultimi mesi che sono stati i più duri della mia lunga carriera...».
Un cammino, anche “spirituale”, iniziato nel 1979 nei dilettanti del Molinella e proseguito fin qui, allenando da Nord a Sud della penisola, isole comprese, i club di 16 regioni su venti.
«Sono andato via di casa a sedici anni e non sono ancora tornato... I Reja, sono arrivati a Lucinico nel ’600 dalla Spagna. Da mamma Maria ho appreso l’educazione cattolica e il rispetto profondo per quelli che hanno meno di noi. Papà Antonio faceva il viticoltore: da mattina a sera sui campi a lavorare come un mulo quando ancora non c’era il trattore. E io gli davo una mano prima di andare a scuola».
Edy il figlio unico destinato ai campi agricoli e che invece è diventato un lavoratore privilegiato della “zolla” pallonara.
«Un sogno realizzato. Un desiderio espresso fin da piccolo. Nelle letterine che scrivevo a San Nicolò gli chiedevo ogni anno di portarmi un pallone di cuoio e invece mi arrivavano sempre arance e mutande. Che delusione… Quando mi regalarono il primo pallone alla sera me lo portavo anche dentro il letto per addormentarmi. Andai a provare con la Juventus e poi alla Spal firmai il cartellino di nascosto. Non ero maggiorenne e ci voleva il consenso del genitore. Mio padre quando lo seppe andò su tutte le furie. Gli dissi: papà non ti preoccupare, provo un anno e se non va torno subito a casa a lavorare con te… Eccomi a settant’anni ancora in giro per il mondo e ringrazio anche di questo mio padre che oltre allo spirito di sacrificio forse mi ha insegnato a riconoscere i giocatori giusti come si fa con le bottiglie di buon vino in cantina. Bisogna avere la pazienza di aspettare per vedere maturare il talento».
Anche il Reja allenatore ha avuto dei tempi lunghi di maturazione.«Infatti. A volte penso di aver fatto “gavetta” fino 58 anni e da quel momento ho solo completato il ciclo di esperienze. Prima ero stato un buon allenatore di B, poi è arrivata la chiamata del Napoli in C1 e quello è stato un bagno di popolarità che non si asciugherà mai. A Napoli per simpatia vengo subito dopo Maradona e forse - sorride - me la gioco con Higuaìn per il secondo posto».
Reja più amato anche di Maurizio Sarri?
«Non lo dico io, ma i napoletani. Quando ho riportato la squadra dalla C1 all’Europa mi hanno detto: “Edy ci hai ridato dignità”. Sarri è stato bravo quest’anno, ma che Napoli ha? Io in attacco avevo a disposizione Zalayeta e Lavezzi che quando è sbarcato era più largo che alto. Ho allenato l’Hamšík 19enne, perciò permettetemi di chiedermi: ma con questo Napoli dove sarei potuto arrivare?».
Noi invece ci chiediamo: ma con il presidente De Laurentiis come andò?
«Aurelio De Laurentiis è un signore. Ora sa anche di calcio, ma appena prese la società no, per questo siamo quasi arrivati alle mani, ma da gentiluomini ci siamo subito spiegati e il giorno che sono andato via dal Napoli mi ha detto: “Per lei Reja qua la porta sarà sempre aperta”. Non sono frasi di circostanza ci sentiamo ancora spesso».
Lei è come il piatto del buon ricordo, ovunque è stato ha lasciato il segno.
«In campo io sono come nella vita, una persona leale, schietta, non parlo mai dietro le spalle. Per questo ci sono calciatori che mi telefonano a distanza di anni e mi dicono: “Mister, io con lei andavo sempre in panchina, ma è il miglior allenatore che ho avuto”».
Non tutti gli ex allievi del suo amico Fabio Capello possono dire lo stesso.
«Fabio ha un carattere particolare, ma io lo conosco bene, per me è come un fratello e rimane uno dei migliori allenatori al mondo. Siamo partiti assieme e abbiamo debuttato lo stesso giorno nella Spal. A Ferrara vivevamo nella casa delle “Zitelle”. Due sorelle anziane che parteggiavano una per me e l’altra per Fabio e litigavano ogni giorno per questo. Noi origliavamo dalla nostra stanza e ridevamo come dei pazzi».
Il più “pazzo” del gruppo di quella Spal però era Ezio Vendrame, il Piero Ciampi prestato al calcio.
«Un estroso Vendrame, un giocatore tecnicamente impressionante. Per le partite della De Martino della Spal c’erano sempre 5-6mila persone e non gli fregava niente di me di Capello o di Pasetti, venivano solo per lui... Ezio si è consumato in una vita intensa, come un poeta, del resto è di Casarsa».
Già, come Pier Paolo Pasolini, con il quale lei ha anche giocato a calcio.
«Pasolini era molto bravo, un’ala veloce, sgusciante. Ci incontravamo a Grado a fine campionato per le sabbiature. Stava sotto la sabbia bollente a più di 55 gradi per venti minuti: impassibile, leggeva... Entrava anche in acqua con un libro in mano, mai conosciuto un intellettuale più sportivo e più colto di Pasolini».
Il giovane Edy invece ha letto poco e studiato tanto una sola materia, il calcio.
«Non ho mai smesso di aggiornarmi andando in giro per l’Europa. E lo stesso vale per un altro “senior” come me, Giampiero Ventura: sarebbe un ottimo ct per la Nazionale. Nell’aggiornare le conoscenze credo stia il segreto della nostra durata rispetto a tanti “allenatori-ragazzini” che pensano di sapere già tutto e che il mondo sia ai loro piedi solo perché sono giovani. Molti di loro poi sono nati vecchi».
Un altro “vecchio” signore delle panchine, Claudio Ranieri, ha appena sbancato in Inghilterra con il Leicester.
«Grandissimo Claudio, ha scritto una pagina di storia che rimarrà nei secoli. Da noi quando un Leicester tricolore? Sarebbe bello, ma è assai improbabile. Certo per cancellare definitivamente quell’immagine che all’estero fa di noi un popolo di “truffaldini”, anche nel calcio, ci vorrebbe uno scudetto al Sassuolo, anzi all’Atalanta del presidente Percassi. Ma per il momento siamo ancora nel campo dei “miracoli”».
E qualche piccolo “miracolo” in tutto questo tempo non l’ha fatto anche Reja?
«Subentrando in corsa negli ultimi quindici anni credo diversi... Penso alla promozione in A sfumata con il Cosenza, e a quella ottenuta invece con il Brescia in cui lanciai un ragazzino di 17 anni, un certo Pirlo».
La vittoria a sorpresa del club che fu di Gino Corioni, scomparso da poco, uno dei tanti presidenti sanguigni con cui ha avuto a che fare.
«Corioni rappresentava la tradizione, il vecchio “padre patron”. A Cagliari ho avuto Cellino, un imprenditore con una competenza calcistica fuori dal comune. Alla Lazio con Lotito non ho avuto grandi problemi, a livello amministrativo è un genialoide, ma sbaglia ad essere così egoreferenziale... La seconda volta che sono tornato alla Lazio voleva che restassi, ma ho preferito andare via e gli ho consigliato di prendere Pioli. Mi ha ascoltato».
Consigli per gli acquisti azzeccati dal più saggio degli allenatori che a Vicenza vide giusto prima degli altri su Luca Toni. «Quando dicevo che Toni era il miglior attaccante italiano schiena alla porta tanti ridevano... È salito sul tetto del mondo e ha segnato gol a grappoli ovunque ha giocato».
Toni è il migliore che ha allenato?
«No, il migliore l’ho avuto alla Lazio, Miro Klose. Un fuoriclasse, al di là del record dei gol segnati nei Mondiali con la Germania. Un atleta da studiare nelle scuole calcio per comportamento, educazione e senso tattico. Una mezza lacrima (prima di quella del gol d’addio al calcio dell’atalantino Gianpaolo Bellini) l’ho versata quando Klose a 20 secondi dalla fine segnò la rete vincente alla Roma. Non vincevamo un derby da due anni...».
Klose, gioia, ma anche rimpianto: nel 2012 con il tedesco infortunato per la seconda volta di fila le sfuggì la qualificazione in Champions.
«Se avessi avuto Miro in quel finale di campionato... Invece si fermò per infortunio e recuperò lentamente perché voleva andare a tutti i costi agli Europei. Ma va bene così, vorrà dire che prima di smettere allenerò una squadra che mi farà ascoltare la “musichetta” della Champions».
Reja dunque non lascia, anzi raddoppia, anche sugli incontri di una vita.
«Il più importante rimane quello con Ayrton Senna. Era un amico, veniva ad allenarsi con me quando ero al Pescara. Il giorno prima dell’incidente avevamo pranzato insieme a Imola e tra un pezzo di formaggio e un’insalata si lamentava dellaWilliams che non andava. Ho saputo della sua morte dalla radio mentre viaggiavo, ho dovuto fermare la macchina... Ora vorrei tanto conoscere papa Francesco, un “fuoriclasse” del genere alla grande squadra dell’umanità mancava da tanto».