«Credo
nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards...», confessa
alla radio il Freccia dell’interista Luciano Ligabue. Noi crediamo,
anzi ne siamo convinti, che chi è stato ragazzo negli anni ’70, per
qualsiasi squadra abbia fatto il tifo, non poteva restare indifferente
al fascino impetuoso del breriano “Bonimba”, alias Roberto Boninsegna.
Attaccante
nato, classe 1943 (il 13 novembre), bomber potente dalla faccia
scolpita del divo dei campi di calcio, e all’occorrenza anche per la tv:
rivedere i “Promessi sposi” di Salvatore Nocita. Tutta roba buona e in
bianco e nero, come quella sforbiciata epica - quanto la rovesciata,
icona Panini, di Parola - a giustiziare l’incolpevole portiere del
Foggia Trentin (un’altra faccia rubata al cinema di Sergio Leone). Fermi
immagine di un calcio che non c’è più. «Il mondo è cambiato e in
peggio, ma che ci possiamo fare...», dice Boninsegna che i
festeggiamenti per i suoi «70 anni e non sentirli, per fortuna», li
comincerà lunedì prossimo nella natìa Mantova, alla cartiera Burgo.
È
la fabbrica ultracentenaria in cui lavorava come saldatore suo padre
Bruno e probabilmente la causa «per cui è morto, a 61 anni, per via
delle esalazioni del gas e delle polveri – spiega –. Se papà fosse
ancora qui, di certo presidierebbe la fabbrica». Quello che stanno
facendo dal febbraio scorso i 180 cassintegrati della cartiera. Papà
Bruno, era stato anche il terzino della squadra aziendale. Quindi è
stato lui a trasmettere al figlio unico “Bobo” («così mi chiamano gli
amici di sempre») la passione per il calcio? «Papà giocava, ma la vera
tifosa di casa era mia mamma, Elsa. Ogni domenica era fissa al Martelli a
seguire il Mantova. Ha cominciato a portarmi allo stadio che era
incinta. Al nono mese il custode la vede e gli fa: “Oh, signora Elsa,
domenica prossima, però, è meglio che va all’ospedale, altrimenti questo
bambino nasce qua...». Ma con la squadra del cuore di mamma Elsa, il
Mantova, non solo non cominciò, ma non ci ha mai giocato. A 15 anni
lasciava casa per l’Inter, «la mia squadra del cuore». Alla Pinetina, un
mantovano di Suzzara, Italo Allodi, antesignano dei dirigenti del
pallone nostrano, stoppò sul nascere («complice la bocciatura del mago
Herrera») il suo sogno di debuttare in prima squadra.
«Allodi
sarà stato anche un gran dirigente, ma con me si comportò male. Dopo il
prestito al Prato torno a Milano e mi dice: “Adesso o vai al Potenza o
puoi anche smettere...”». Se il “Cristo” di Carlo Levi si era fermato a
Eboli, il giovane Bobo a testa bassa proseguiva fino a Potenza.
«Una
punizione, cattiveria gratuita, ma la stessa cattiveria la misi in
campo e il Potenza quell’anno sfiorò una storica promozione in Serie A».
L’anno dopo, il ’65, ritorno al Nord, ma non all’Inter, «altro
parcheggio al Varese» e da lì, la cessione definitiva al Cagliari. «Una
seconda punizione, pensavo prima di arrivare in Sardegna. L’anno prima
il Cagliari si era salvato dalla retrocessione in B per il rotto della
cuffia. Poi, però, in quella squadra trovai Gigi Riva, un fratello con
il quale condividevo tutto, sigarette comprese.
Del resto se non
fumavi mica potevi essere allenato dal “Filosofo” – sorride ancora –.
Scopigno? Un grande uomo, un po’ indolente nel lavoro settimanale, ma
noi alla domenica eravamo preparati e pronti a tutto». Pronti a vincere
lo storico scudetto del ’70, al quale però Boninsegna non partecipa,
perché finalmente in estate torna a “casa”. «Mi dissero: guarda qui la
rosa è già di 14 giocatori... Oggi fa ridere, perché quando va bene in
una squadra ce ne sono minimo trenta. Comunque per fare cassa avevano
deciso: “Dobbiamo vendere, o te o Gigi Riva”. Io a Cagliari sarei
rimasto a vita come ha fatto Gigi, ma rilanciai: cedetemi, ma solo
all’Inter. Mi accontentarono».
Da nerazzurro disputa la “partita
più lunga del secolo”, la semifinale mondiale di Messico ’70. «Quella
partita me la sono rivista in tutte le salse: in bianco e nero, a colori
e poi anche al cinema: il film di Andrea Barzini, Italia-Germania 4 a 3.
Potevamo battere il Brasile in finale? Forse no, Pelè a parte quello
rimane il Brasile più forte di sempre. Però, se potessi riavvolgere il
nastro, farei di tutto per convincere Valcareggi a far giocare Rivera
dal primo minuto: l’anno prima aveva vinto il Pallone d’Oro. E allora,
come fai a tenerlo in panchina? Quella staffetta con Mazzola è stato un
“errore mondiale”».
Un abbaglio quanto quello dell’Inter che
l’estate ’76 fece lo scambio con la Juventus: Anastasi in nerazzurro e
Boninsegna in bianconero. «Quando il presidente Fraizzoli mi telefonò
per dirmi che mi aveva ceduto alla Juve ero al mare. Mia moglie si
ricorda ancora che mi tremava la cornetta e diventai bianco come un
lenzuolo. Volevo morire...». La morte nel cuore di Bonimba, ma anche di
quello del popolo nerazzurro che si sentì tradito. «Ancora oggi ci sono
interisti convinti che abbia fatto il “mercenario”, ignorano che
all’epoca non esisteva lo svincolo e che il calciatore era totalmente
ostaggio della società».
Alla Juve, intanto, vinse tre scudetti e
una Coppa Uefa, il primo titolo europeo del grande ciclo targato
Giovanni Trapattoni. Anastasi all’Inter, invece, fu un flop. «La vera
“staffetta” è stata la nostra. Nel ’68 al Cagliari mi diedero 11
giornate di squalifica, così Anastasi prese il mio posto in Nazionale e
vinse gli Europei. Due anni dopo lui resta a casa e io vado in Messico.
Trapattoni? Quando ripenso ai suoi fischi alla “pecorara” mi vengono i
brividi... Non li sopportavo. Il Trap è un martello pneumatico, e se
Conte, come dicono, gli somiglia, quelli della Juve stanno freschi... A
Trapattoni comunque lo ringrazio per lo scudetto dei record dell’Inter».
Riconoscenza
dell’eterno nerazzurro. «Ho sempre gioito e sofferto per quei colori.
Il 5 maggio 2002 ero in panchina con il Mantova e perdemmo 4-2, proprio
come l’Inter all’Olimpico con la Lazio. Come hanno potuto buttare via
quello scudetto? Mi è dispiaciuto tanto anche per il presidente, il mio
amico Giacinto Facchetti. Così, come ora mi dispiace vedere Moratti che
lascia... Thohir avrà anche tanti soldi, ma non potrà mai emozionarsi
come uno che nasce e cresce interista».
I gol più belli e,
soprattutto, quelli che tiene nel cuore li ha realizzati con la maglia
della Beneamata. «Vado fiero di aver segnato un po’ a tutti. Scrivono
163 gol sugli annali, in realtà sono 168, cinque me li hanno tolti. Così
come mi hanno depennato il terzo titolo di capocannoniere, quello del
’74, che con 24 reti andò a Chinaglia perché il mio 24° gol al Cesena lo
considerarono autorete. Anche di rigori ne avevo realizzati 20 di fila,
ma ne segnano 19, perché l’arbitro Michelotti a un minuto dalla fine
sospese un Roma-Inter in cui avevo trasformato il 20° e tutti segnati in
campionato. A Balotelli conteggiano anche quelli nelle Coppe, non è la
stessa roba». E, forse, neanche Balotelli è della stessa razza dei
Bonimba e dei Riva.
«Sarò vecchio e fuori moda, ma questi giovani
in campo con le creste, gli orecchini e i tatuaggi non mi convincono...
Per i media basta che fanno due partite decenti che diventano subito
dei fenomeni. Cosa penso di Balotelli? Che un altro Riva non l’ho più
visto in Nazionale e Rivera rimane superiore a Totti. Se c’è stato un
altro Boninsegna? Forse Bobo Vieri, tutto sinistro e potenza fisica,
proprio come me». Un altro Bobo come unico erede del Bonimba che ha un
solo rimpianto: «Non aver avuto la possibilità di allenare in Serie A.
Mancanza di procuratore, ma un po’ è stata anche colpa mia. Quando ho
smesso mi sono preso una pausa di dieci anni per disintossicarmi. Poi,
quando sono rientrato nel calcio, ho capito che questo ambiente è un
treno dal quale non devi mai scendere... Se lo fai, ti dimenticano
subito, qualsiasi cosa tu abbia rappresentato».