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Formula 1: Troppa neve in Emilia. Nuova Ferrari via web, domani sul sito ufficiale foto della nuova monoposto e interviste ai protagonisti

La Ferrari ha deciso di annullare la cerimonia di presentazione della nuova monoposto di F.1, prevista domani alle 10.30. La decisione, spiega la casa del Cavallino, è stata presa per le condizioni meteo "e le prevedibili difficoltà che avrebbero incontrato i circa trecento invitati fra partner, autorità e rappresentanti dei media nel raggiungere Maranello". Le immagini e le informazioni tecniche sulla vettura, corredate con interviste esclusive, saranno disponibili per tutti su www.ferrarif1.com.
senza tregua — La neve, infatti, non ha dato tregua nemmeno la scorsa notte, continuando a cadere su Maranello e sulle aree limitrofe. Anche questa mattina la situazione non mostra cambiamenti. Le previsioni - sottolinea la Ferrari - sono sempre negative, sia sul fronte delle precipitazioni nevose che su quello delle temperature, previste in forte calo. Da qui la decisione di annullare la cerimonia di presentazione della nuova monoposto e di trasferire tutto su Internet.
Gasport

Normalità è il nome elaborato ideologicamente per significare maggioranza. Cos’altro può significare, «normale», se non il fatto di ricadere in una maggioranza statistica? Io disabile in un mondo che esclude

Normalità è il nome elaborato ideologicamente per significare maggioranza. Cos’altro può significare, «normale», se non il fatto di ricadere in una maggioranza statistica? E cos’altro significa «anormalità» se non l’appartenenza a una minoranza statistica? Parlo di maggioranze e minoranze perché l’idea di normalità presuppone che alcune unità di un totale complessivo non siano conformi alla «norma»; se il 100 per cento delle unità recassero gli stessi tratti distintivi, sarebbe difficile che emergesse l’idea di una «norma». Quindi l’idea di «norma» e «normalità» implica una dissimiglianza, una difformità: la suddivisione di un totale complessivo in una maggioranza e in una minoranza, in un «la maggior parte» e «alcuni». La «elaborazione ideologica» che ho menzionato si riferisce alla sovrapposizione del «si deve» sull’«è»: non soltanto le unità di un certo tipo sono in maggioranza, ma esse sono come «dovrebbero essere»; sono «giuste e appropriate»; al contrario, quelle che difettano dell’attributo in questione sono come «non dovrebbero essere» – «sbagliate e inappropriate». Il passaggio dalla «maggioranza statistica» (un’enunciazione di fatto) alla «normalità» (un giudizio di valutazione), e dalla «minoranza statistica» alla «anormalità», attribuisce una differenza di qualità alla differenza nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori. Si sovrappone una differenza di qualità sulla differenza numerica – e, se viene applicata alle interazioni umane, si riciclano le differenze della forza numerica nel fenomeno (sia in teoria, sia in pratica) della ineguaglianza sociale. La questione della «normalità versus anormalità» è la forma in cui la questione della «maggioranza versus minoranza» viene assorbita/addomesticata, e conseguentemente fissata, nella costruzione e nella preservazione dell’ordine sociale. Sospetto perciò che «disabilità» e «invalidità», i nomi affiliati (e in misura parzialmente maggiore, benché non interamente, «politicamente corretta») per «anormalità», quando si riferiscono al trattamento delle minoranze umane come inferiori, siano parte integrante della più vasta questione «maggioranza versus minoranza» – e quindi in definitiva un problema politico. Questo problema si focalizza sulla difesa dei diritti delle minoranze che i meccanismi democratici esistenti, basati come sono sull’incorporazione del fatto di essere una maggioranza nel diritto di assumere decisioni vincolanti per tutti, sembrano essere incapaci (e con ogni verosimiglianza non particolarmente desiderosi) di affrontare, gestire e risolvere definitivamente la questione.

Nella famosa storia di H.G. Wells «Nel Paese dei Ciechi» la questione viene posta ed esplorata acutamente: in una società di ciechi, un orbo sarebbe stato re, come credeva la persona che si avventurò nella vallata per fuggire dalla società di chi vedeva con entrambi gli occhi, in cui essere orbi veniva considerato un difetto avvilente? Se fosse stato davvero re in una società di ciechi, la tacita assunzione sottesa alla nostra società (che la superiorità dei vedenti sui ciechi è un verdetto della natura, piuttosto che una creazione socioculturale) sarebbe stata confermata, rinforzata, forse addirittura «provata». Ma ciò non avvenne. Lo straniero con un occhio solo non venne acclamato come un re da adorare e a cui obbedire, venne visto invece come un mostro da aborrire e scacciare! Nella «normalità» fatta nella valle su misura per i suoi abitanti che avevano avuto il destino di essere ciechi lui, l’orbo, era portatore di una minacciosa anormalità. Il che spiega che la normalità non viene vissuta come repellente e minacciosa a causa della sua intrinseca inferiorità, bensì per il fatto che contrasta l’ordine stabilito per aderire ai bisogni/costumi/aspettative dei «normali» – vale a dire, della maggioranza. Alla fin fine, discriminare ciò che è «anormale» (ovvero la condizione della minoranza) è un’attività posta in essere per difendere e preservare l’ordine, una creazione socioculturale.

Nella sua storia in due romanzi distinti, «Cecità» e «Saggio sulla lucidità», José Saramago ha sviluppato ulteriormente questo argomento. Nel primo romanzo, un’inesplicabile cecità affligge l’intera popolazione della città con l’unica eccezione di una donna, sulla quale gli orrori della nuova «norma» che sospende e invalida tutte le regole del vecchio ordine si focalizzano sulla minoranza di una persona eletta nelle menti terrificate della maggioranza cieca come una causa, forse la causa principale, del loro miserabile destino.  Nel secondo romanzo la città è totalmente guarita dalla peste della cecità, ma è afflitta da un disastro parimenti inesplicabile che si è abbattuto sull’ordine sociale: il rifiuto dell’elettorato di esprimere la propria preferenza, e quindi di mantenere vivo il presupposto stesso della democrazia, in modello attualmente vincolante di ordine. Tutte le forze della polizia segreta vengono così mobilitate per dare la caccia a, e neutralizzare, quell’unica donna che durante il flagello della cecità non aveva perduto la vista…
Anormali una volta, anormali per sempre; anormali rispetto a un singolo aspetto, anormali in tutto; e non una minaccia a un ordine specifico, bensì all’ordine in quanto tale. Alla fine, tutto ruota intorno all’ordine. I vari tipi di ordine sono tagliati su misura delle maggioranze, e così i pochi che nicchiano o si rifiutano apertamente di obbedire si ritrovano a essere una minoranza, agevole da sminuire come una «deviazione marginale» – e perciò facili da individuare, localizzare, disarmare e sopraffare. Selezionare, designare e isolare come una «frangia di anormalità» è il necessario fattore concomitante della costruzione dell’ordine e il costo inevitabile della sua perpetuazione. Questa è una verità molesta, dolorosa e sgradevole, e tuttavia è la verità. Il mondo abitato viene strutturato in modo da essere ospitale – conveniente e confortevole – per i suoi abitanti «normali»: le persone che costituiscono la maggioranza. Le automobili devono essere equipaggiate con luci e trombe che avvisino del loro arrivo – strumenti di nessuna utilità per i ciechi e i sordi. Le scale, che hanno il compito di facilitare l’ascesa verso i luoghi elevati, non sono di alcun aiuto per le persone relegate su sedie a rotelle. Io stesso, nella mia età avanzata, avendo ormai perso la maggior parte del mio udito, non posso più essere allertato dai telefoni o dal campanello di chi suoni alla mia porta.

Questi esempi si sono riferiti finora alle disabilità fisiche – che in una società solidale potrebbero essere sanati da trattamenti medici e, nel caso dell’assenza di una funzione fisiologica, mitigati da strumenti tecnologici capaci di «estendere» il corpo umano e/o fare le veci delle risorse fisiche mancanti. Non esistono però le sole disabilità fisiche, vi sono altre disabilità molto più diffuse, anche se in questi casi i loro poteri disabilitanti vengono spazzati sotto il tappeto, ipocritamente negati o altrimenti ignorati e dissimulati. Non sono problemi medici o tecnologici ma politici. Per esempio, gli handicap causati alle persone che non possiedono un’automobile cancellando, come «improduttivi» (e per ciò stesso di peso ai cittadini «normali» che pagano le tasse), molti percorsi degli autobus o chiudendo uffici postali o filiali bancarie «non remunerative». Vi sono, specialmente nella nostra società dei consumi, consumatori «squalificati», a corto di denaro, a cui non si fa credito, e a cui perciò si nega la possibilità di raggiungere gli standard di «normalità» stabiliti dal mercato e misurati dal numero di cose possedute e dagli atti d’acquisto. E, circostanza ancora più importante per il tema di cui ci stiamo occupando, vi sono grandi quantità di giovani fisicamente prestanti in età scolare, disabilitati nei loro tentativi di raggiungere gli standard posti dal mercato del lavoro dal fatto di essere nati e cresciuti in famiglie i cui guadagni sono sotto la media o in quartieri deprivati e trascurati… Famiglie che vivono in povertà (anche in questo caso una condizione misurata da standard di «normalità» che, posti in termini socioculturali, sono i fornitori più prolifici di studenti deboli o «ritardati»). In questi casi sarebbero necessari equivalenti politici degli strumenti medici o tecnologici usati per compensare le disabilità fisiche. Questi mezzi esistono senz’altro, ma la loro disponibilità o la loro assenza dipende sono in piccola parte dalle scuole e dagli insegnanti. L’ineguaglianza delle opportunità educative è qualcosa che soltanto le politiche statali possono affrontare e risolvere in modo netto e preciso. Finora, comunque, come abbiamo visto prima, le politiche statali sembrano più propense alla latitanza che a mettersi in gioco con serietà per risolvere questo enorme problema.

IL TESTO


 
Venti conversazioni in un’estate, tra internet e Leeds (città di residenta di Bauman). È nato così «Conversazioni sull’educazione» (pp. 146, euro 12- scheda online su ibs con il 15% di sconto), il volume Erickson in cui l’intellettuale di origine polacca dialoga con l’italiano Riccardo Mazzeo e del quale offriamo in questa pagina un saggio. A 86 anni il sociologo che ha coniato la definizione di «società liquida», si occupa delle giovani generazioni e del tema dell’educazione: qual è oggi il suo ruolo, se manca un’idea precisa di futuro, se i progetti a lungo termine sembrano ormai impossibili, se non esiste più un modello unico e condiviso di umanità? Bauman offre una prospettiva critica, ma anche di estrema apertura, per esempio ritenendo che l’inevitabile processo di meticciato culturale dovuto all’emigrazione di extracomunitari in Occidente sia «fonte di arricchimento e motore di creatività, per la civiltà europea così come per qualunque altra»; purché la coabitazione sia basata da ambedue le parti sul rispetto dei principi del "contratto sociale" europeo.


Zygmunt Bauman - avvenire.it

Un pallone salvò Rino dal lager

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Nella giornata della memoria, c’è una storia, sicuramente poco nota ai tifosi degli stadi “smemorati” di oggi, che va raccontata. È la storia di Rino Mario Pagotto, e a riportarla alla luce è stato Giuliano Musi (giornalista del Corriere dello Sport Stadio) nel suo libro Pagotto. Un calcio anche alla morte (Minerva Edizioni).

Rino non era un ebreo, ma dai campi di calcio della Serie A, un giorno si ritrovò a vivere l’esperienza drammatica dei campi di concentramento nazisti. I primi campi che aveva conosciuto e calcato, erano quelli dove lavoravano come contadini i suoi genitori e i fratelli, a Fontanafredda (Udine), il paese dove era nato nel 1911. Poi, trasferitosi con la famiglia a Pordenone, nelle ore rubate alla bottega di ciabattino c’era stato il campetto dell’Aurora, la squadra della parrocchia. «Non avevo mai pensato di entrare su quel campo per farne una ragione di vita», raccontò ai figli Piero e Patrizia (che hanno collaborato alla stesura del libro).

E invece come nelle più romantiche delle storie di cuoio, Rino passò al Pordenone e da lì quel terzino granitico e dall’anticipo bruciante, andò a provare per il grande Bologna. Ad attenderlo, il tecnico ungherese Árpád Weisz che squadrò quel ragazzone di belle speranze e prima del test gli intimò: «Non abbia paura di sbagliare, è meglio osare che trattenersi».

Pagotto osò e riuscì ad entrare nella rosa del Bologna riserve. L’infortunio del difensore Gasperi gli aprì le porte della prima squadra: esordio in Serie A, con tanto di vittoria, contro il Genoa, il 1° novembre del 1936. Fu tra i protagonisti dello scudetto e l’anno dopo anche della conquista del Trofeo dell’Esposizione di Parigi. La lezione di calcio impartita al Chelsea, sconfitto 4-1 in finale, fece del Bologna la prima squadra italiana a superare i maestri inglesi in un torneo internazionale.

Da quel momento Pagotto divenne uno degli eroi dello «squadrone che tremare il mondo fa». Il Bologna alla promulgazione delle leggi razziali del ’38 era passato sotto la direzione del tecnico Felsner, l’ebreo Weisz era dovuto scappare dall’Italia, per poi finire i suoi giorni a Auschwitz: ucciso dal boia nazista assieme alla moglie Elena e i figli Roberto (12 anni) e Clara (8). Pagotto con Fiorini e poi con Ricci, intanto alzava il muro della difesa bolognese e il tenente degli alpini Vittorio Pozzo lo arruolò in Nazionale per la sfida contro la Romania. Due anni più tardi quel “battesimo azzurro”, stop al campionato: il suo destino e quello di tanti calciatori fu quello di rispondere alla chiamata della patria.

«Venni richiamato dagli alpini il 16 ottobre del 1942 e fatto prigioniero dalle SS l’8 settembre del ’43», ricordava amaro Rino che si ritrovò prigioniero nel campo di Hohenstein (Prussia dell’Est). «Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all’interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo». Ricordi tragici del prigioniero “DA8659” («nemmeno cento numeri più dello dello scrittore Rigono Stern»), che da Hohenstein venne trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia.

Qui Pagotto scambiò qualche frase con «i prigionieri dalle divise a righe», ebrei che come lui non speravano più di tornare liberi. L’unico scampolo di libertà lo ritrovò nell’ultima tappa della prigionia, a Cernauti, dove rivide ragazzi e ragazze ebrei conosciuti a Hohenstein e Byalistok, ma soprattutto il pallone. Pagotto si trasformò in allenatore-giocatore e mise in piedi una squadra fortissima che ben presto divenne celebre come “Quelli di Cernauti”. La formazione con la quale a Sluzk (vicino Minsk) «osò» sfidare la squadra dell’Armata Rossa, ridicolizzandola con un quasi cappotto, 6-2. Una gara da “fuga per la vittoria” che anticipava il tanto agognato ritorno a casa («il 18 ottobre del 1945») per abbracciare la moglie Giuseppina e il suo Bologna. Ma fino all’ultimo (è morto nell’agosto del ’92) di tutte le sfide disputate, Rino ricordava quelle leviane dei “giorni in cui l’uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini”: «Noi nei lager ad ogni partita ci giocavamo la vita...».

Massimiliano Castellani - avvenire.it