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Meazza Cent’anni al grido: «Faso tuto mi»

Galante con le donne ma anche in campo, in cui uccellava cortesemente i portieri con il famigerato «gol a invito». Una magia che l’ambrosiano non seppe mai spiegare a parole sue: al centro dell’area attirava fuori dai pali il portiere, lo lasciava steso a terra e poi depositava in rete


LE STORIE Iniziava un secola fa, il 23 agosto 1910, la parabola del mitico Peppìn «dalle spallucce cadenti», prima grande stella del calcio azzurro Sfruttato dal Regime come il prototipo del Balilla ma in realtà estraneo alla politica, infiammò gli spalti con le sue incredibili prodezze. E vinse due Mondiali

di Massimiliano Castellani Ai calciofili che continuano indefessi ad arrovellarsi sull’arcano secolare: «Il più forte giocatore di tutti i tempi è stato Pelè o Maradona?», mastro Gianni Brera, dietro a una nuvola di fumo del suo sigaro, ieri come oggi, avrebbe risposto con perentoria sentenza citando in causa il terzo incomodo: «Giuseppe Meazza, perché il Peppìn è stato el fòlber ». Un predestinato fin dall’anno di nascita, era venuto alla luce a Milano, quartiere popolare di Porta Vittoria nel 1910, il 23 agosto. Tre mesi dopo quel 15 maggio in cui all’Arena aveva fatto il suo debutto la nostra Nazionale di calcio. E di quella squadra il Peppìn, «con le spallucce cadenti, sintesi perfetta brianteo­bassaiola del popolano lombardo», di lì a poco sarebbe diventato il simbolo, la più grande leggenda azzurra. Con un pallone di stracci incollato ai piedi, il piccolo giocoliere ambidestro, dal bolide precoce e rovente come le castagne della caldarroste di corso Venezia, dall’alba al tramonto, con tunnel e magie, sfidava i suoi compagni di brigata. Fu durante una di quelle interminabili partite, in quei campetti di Porta Vittoria, che gli arrivò come una gamba tesa al cuore, il grido di dolore di sua madre, Ersilia, la “ verduratta” del mercato ortofrutticolo, che lo richiamava a casa per la luttuosa notizia. A sette anni il Peppìn si ritrovò orfano, suo padre era caduto al fronte nella Grande guerra. Una Caporetto nella testa, già dura e avvezza all’inzuccata vincente in porta, di quel soldo di cacio dai polmoni sfiatati, «troppo gracile per fare sport», secondo i medici. Ciechi scienziati che non avevano intuito che su un campo di calcio quel “pastina” diventava di colpo una scheggia impazzita, immarcabile, leader indiscusso al grido: « Faso tuto mi ». Piedi di razza mai vista prima e le preghiere di mamma Ersilia che, ogni domenica prima di ogni partita del suo Peppìn offriva una Messa, gli permisero di arrivare a giocare con i ragazzi dell’Internazionale, prepotentemente italianizzata dal Fascio in Ambrosiana. Debutto a diciassette anni in prima squadra, nella finale della Coppa Volta, per volere del mister illuminato Árpád Weisz su consiglio del “Dottore” Fuffo Bernardini. Spavaldo come un Mario Balotelli del secolo scorso, capelli impomatati di brillantina e sguardo fiero negli occhi bovini, si accingeva a fare il suo ingresso in campo con la maglia nerazzurra, quando di scatto gli arrivò l’eco di un’entrata da dietro del veterano Poldo Conti che ironizzava: «Adesso qui facciamo giocare pure i balilla…». Ma il vecchio Poldo non aveva fatto i conti con la volontà del dio Eupalla che aveva spedito sulla terra uno dei suoi massimi epigoni, il Peppìn. Meazza si presentò con una tripletta e l’Ambrosiana vinse la Coppa Volta. Così da da quel giorno divenne l’idolo delle folle degli stadi d’Italia e poi d’Europa, salutato, con o senza braccio destro teso, al nome di “Balilla”. Il Regime sfruttò il prode centrattacco rendendolo con il pugile Primo Carnera il suo uomo immagine. E approfittando del vuoto lasciato dalle cronache nere ormai bandite dai quotidiani, spazio a nove colonne sulle pagine in cui si tracciava il profilo maestoso del Meazza, perfetto fascista che dormiva sempre con la foto di Mussolini sul comodino. In realtà il Peppìn dalla politica si teneva alla stessa distanza di sicurezza con cui si smarcava dell’acerrimo francobollatore Monti. Fuori dal rettangolo di gioco, le idee e i suoi pensieri erano molto spettinati, mentre con i capelli sempre in ordine brillava nelle balere e con il sorriso da bullo di rione andava incontro alla dolce vita.
Galante con le donne che lo adoravano, ma anche in campo, in cui uccellava cortesemente i portieri con il famigerato “gol a invito”. Prodezza brevettata che l’oracolo ambrosiano non seppe mai spiegare a parole sue. Una magia, una danza al centro dell’area dove, una volta ricevuta palla, attirava fuori dai pali il portiere, lasciandolo perplesso e solitario steso in terra, per poi depositare il pallone con calma e di piattone nell’angolino, tra lo stupore rumoroso degli spalti in visibilio. Riso amaro, ma anche lacrime, il 9 febbraio del 1930 quando ricevette la prima convocazione in Nazionale da parte del “tenente” Vittorio Pozzo che lo chiamava a Roma, nell’amichevole contro la Svizzera.
Mamma Ersilia non stava nella pelle, lanciò il grembiule al cielo, abbandonò il bancone e salutando le comari di quartiere annunciava: «Devo prendere il treno per Roma, il mio Peppino ha bisogno di me». I cinquantamila dello Stadio Nazionale del Pnf avevano occhi solo per quel ventenne che aveva strappato il posto niente meno che al grande centravanti del Napoli, l’oriundo Attila Sallustro. Ma Meazza nel primo tempo, per sua stessa ammissione aveva 'la zucca vuota' e non gli riusciva neppure di stoppare il pallone. Fischi e insulti a pioggia, carichi di invettive nell’idioma del Belli fecero arrossire dalla vergogna mamma Ersilia che dopo 45 minuti con gli svizzeri in vantaggio per 2­ 1, scappò dalla tribuna e tra i singhiozzi attese il ritorno del figlio in albergo. «Mai ho provato un dolore così grande.
Neppure ti immagini Peppino le parole cattive che hanno dovuto ascoltare queste orecchie… A quel “Meazza vai al macello”, poi, non ho più resistito e sono scappata... », disse inondando di lacrime quel figlio temerario che con un ghigno la spiazzò raccontandogli dell’'impresa' – aveva segnato la doppietta decisiva e l’Italia aveva vinto 4-2.
a quel giorno poi nessun portiere, tranne la sua “bestia nera”, lo spagnolo Ricardo Zamora, rimase inviolato nel confronto diretto con il temutissimo “Balilla”, protagonista assoluto della prima storica vittoria a Budapest contro i maestri danubiani: Ungheria-Italia 0-5. Come un Cesare, Meazza marciò su Roma per la finale del Mondiale del ’34, vinta contro la Cecoslovacchia. Con la prima stella iridata l’Italia dei “ragazzi di Mussolini” accettò la sfida nella tana dei superbi inglesi, disertori al Mondiale in quanto si ritenevano unici depositari del football.
Nella “battaglia” di Higbury il più leone dei leoni azzurri fu ancora il Peppìn che con l’Italia sotto di 3 reti e in dieci uomini (Monti infortunato, non c’erano sostituzioni allora) trascinò con due gol la squadra a sfiorare una rimonta epica.
Finì 3-2, ma gli inglesi strabuzzarono gli occhi dinanzi a quel campione che univa in egual dosaggio classe e potenza.
Meazza dopo Londra conquistò anche Parigi, alzando al cielo dello Stadio de Colombes la seconda Coppa Rimet: l’Italia bicampione del mondo umiliava ancora l’Ungheria (4-2). I francesi in estasi definirono Meazza '
DGrand peintre du football'. Il Peppìn con il premio del titolo mondiale (ottomila lire) aveva comprato una Fiat Balilla. Perfino l’apparecchio radiofonico, dal quale Nicolò Carosio narrava in collegamento con gli abbonati dell’Eiar le gesta eroiche di Meazza, si chiamava Radiobalilla. Dopo il ’38 però il cielo sopra il Peppìn d’improvviso si fece azzurro tenebra. Il “Manifesto della Razza”, portò alla deportazione degli ebrei e nel lager di Auschwitz morì il suo pigmalione Árpád Weisz e tutti i membri della sua famiglia.
Gli inverni freddi e disumani dei campi di concentramento, d’un tratto è come se si fossero trasferiti nel “piede gelato” (occlusione ai vasi sanguigni) di Meazza che fu costretto al ritiro anticipato. Solo per il vil denaro provò a tornare il grande Meazza, accettando di giocare persino con gli “odiati” cugini del Milan e poi nella Juve; nel ’47 chiuse all’Inter. Il Balilla che sopravvisse al suo mito fino a 69 anni. E anche nel giorno dell’addio al Peppìn, forse Brera non sbagliò sentenza: «Gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte».
testo e foto: avvenire 25 Luglio 2010

PEPPÌN MEAZZA, QUEL FENOMENO CHE INVENTAVA CALCIO

di Sandro Mazzola  - avvenire 25 Luglio 2010


Mi sarebbe tanto piaciuto vedere dei filmati delle partite di Giuseppe Meazza, perché non so se sia stato il più grande giocatore italiano di tutti i tempi, ma di sicuro, a detta di chi ha avuto l’onore di essergli compagno di squadra o che l’ha visto giocare, era «un fenomeno che inventava calcio». La sua bella figura di uomo elegante incuteva rispetto, specie a un ragazzino come me che se l’è ritrovato allenatore nelle giovanili dell’Inter. Al primo allenamento ebbi la consapevolezza che di fronte avevo un mito vivente che era lì, ad insegnarci i fondamentali del gioco del pallone. Ma oltre alla grande esperienza del giocatore­modello, in campo Meazza dispensava a tutti noi ragazzini del vivaio nerazzurro, consigli di vita. Perle di saggezza che sono servite, anche a quei compagni che poi non hanno fatto una carriera da professionisti e hanno scelto altre strade. I suoi insegnamenti arrivavano dall’uomo che aveva conosciuto la strada e la gavetta prima di diventare il grande Peppìn.

L’elegantissimo signor Meazza. Agli allenamenti si presentava sempre rigorosamente vestito in abiti borghesi, giacca e cravatta, così tutti aspettavamo primavera per vederlo finalmente indossare la tuta che lo avvicinava un po’ di più a noi. Il suo spirito però, era rimasto quello di un giovane innamorato del calcio con il quale si è divertito tanto, anche quando aveva smesso di giocare. Lo ammiravamo, stupiti, quando calciava dei bolidi incredibili e così precisi che finivano quasi sempre in rete e non capivi mai se avesse tirato con il destro o con il sinistro, tanto era abile con entrambi i piedi. Amava scherzare ed era dotato di un’ironia tagliente. Ricordo che un giorno una troupe della Rai venne a cercarlo per una trasmissione: «Come si insegna il calcio». A Meazza chiesero di insegnare il calcio di rigore. In porta misero il 3° portiere dell’Inter, Annibale, e il giornalista concordò che Meazza avrebbe calciato a destra e lui si sarebbe tuffato a sinistra, poi avrebbe tirato a sinistra e lui si sarebbe tuffato dalla parte opposta. Annibale, preoccupato, si avvicinò a Meazza e gli chiese di evitargli quella figuraccia del portiere “spiazzato”, tanto più che poi il filmato lo avrebbero visto alla televisione: «E io - disse Annibale - che figura ci faccio con gli amici dell’oratorio?». Meazza sembrò impietosirsi, ma poi alla fine calciò due rigori di testa sua e senza nessun accordo spiazzò il povero Annibale che rimase di sasso, mentre noi che assistevamo ridevamo come dei pazzi. Era divertente quel suo modo di vivere le situazioni sempre con l’eterno spirito del giocatore che azzarda e va in cerca del numero ad effetto. Ricordo ancora il mio primo derby con il Milan a 15 anni. Meazza ci convocò alle 11 del mattino in sede e questa cosa ci eccitava tantissimo, perché era un po’ come se fosse il ritiro pre-partita della prima squadra. Entrammo nella stanza e stranamente lo trovammo con indosso una maglia nera. Ci fissò uno a a uno e poi disse: «Ragazzi, io ho giocato 6 mesi con il Milan e non me lo sono mai perdonato.

Quindi mi raccomando, oggi andate in campo e cercate di vincere e di segnare almeno 5-10 gol...». Non era uno spavaldo, aveva rispetto per tutti, a cominciare dagli avversari, ma era anche un uomo che viveva con estrema passione. In panchina, d’inverno, avvolto nel suo cappotto, fumava una sigaretta dietro l’altra e da lì vedeva e sentiva ogni respiro. Non dimenticherò mai quella volta che in campo, quando ancora per ragioni fisiche mi schierava all’ala destra, cominciai a brontolare a voce alta perchè non mi arrivava il pallone. Meazza allora si drizzò in piedi, mi chiamò da parte e con accento milanese mi disse: «Ueh “Pastina”, io ho vinto due volte il campionato del mondo e non mi sono mai lamentato con i miei compagni...». Quel rimprovero per me fu uno schiaffo paterno, mi ha aiutato a crescere e a vincere tanto, mantenendo sempre i piedi per terra. E anche per per questo io sarò sempre grato a quel grande uomo del Peppìn Meazza.

CALCIO, URUGUAY: FORLAN PREMIATO MIGLIOR SPORTIVO 2009-2010

Piovono riconoscimenti su Diego Forlan, già proclamato miglior giocatore ai mondiali di calcio in Sudafrica. Nel suo paese l'attaccante dell'Uruguay e dell'Atletico Madrid si è visto assegnare il 'Charrua d'oro' come miglior sportivo del 2009-2010. "Mi sento onorato, ho già avuto altri premi ma ottenerne uno qui, in Uruguay, dove sono nato e cresciuto, è un vero privilegio", ha detto il calciatore dopo avere ricevuto il trofeo dell'Associazione della stampa sportiva. E' il secondo anno consecutivo che l'attaccante in Uruguay viene premiato con il 'Charrua d'oro'.
(25/07/2010) (Spr)

E’ ancora festa in Spagna: dopo la vittoria ai Mondiali di Calcio 2010 e il matrimonio in gran segreto tra Penelope Cruz e Javier Bardem, adesso un’altra lieta notizia arriva dalla coppia: i divi spagnoli sarebbero già in attesa del primo figlio

L’indiscrezione è stata data dal supplemento di cronaca rosa del quotidiano ‘El Mundo‘: l’attrice sarebbe già al quarto mese. I due hanno vissuto il loro amore sempre lontano dai riflettori e dagli scandali del gossip, come una coppia normale. Fino all’ultimo Festival di Cannes, quando lui, ringraziando tutti per il premio ricevuto come “miglior attore” in “Biutiful”, aveva utilizzato i microfoni per fare una dichiarazione in piena regola e romanticissima alla sua donna: “Alla mia amica, la mia compagna, il mio amore. Penelope, ti devo molte cose e ti amo tanto!”.

Stavano insieme già da qualche anno e il primo luglio, nella splendida location delle Bahamas, a casa di un amico, Javier e Penelope si sono detti “sì”, in una cerimonia in gran segreto e per pochi intimi. Ancora nessuna foto delle nozze, né nessuna indiscrezione è trapelata. Solo qualche accenno sul vestito da sposa di lei, firmato “Christian Dior” e confezionato dall’amico John Galliano.

La Cruz è attualmente sul set del quarto capitolo della saga prodotta da Jerry Bruckheimer e dalla Walt Disney Pictures: “Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides” è interpretato ancora una volta da Johnny Depp nei panni del pirata Jack Sparrow, che questa volta avrà al suo fianco non più Keira Knightley, ma una bellezza tutta mediterranea.

Penelope interpreterà nel film il ruolo di Angelica, la figlia di Barbossa, acerrimo nemico di Sparrow. Non si conosce ancora il titolo italiano della nuova pellicola diretta da Rob Marshall, ma l’uscita prevista dovrebbe essere quella del 20 maggio 2011 anche da noi.

Nel frattempo, gli attori si godono la loro nuova famiglia e, se l’indiscrezione dovesse essere confermata, anche il nuovo bimbo in arrivo.

Antonella Gullotti

IL PALLONE IN CRISI: condannati alla vittoria

«Talento al servizio del collettivo»: questa è la Spagna mondiale, per Arrigo Sacchi. E non solo. Stessa definizione per altre protagoniste: «Germania e Olanda, soprattutto, che hanno mostrato buona organizzazione, ottime individualità inserite in un collettivo, entusiasmo, determinazione, voglia di vincere». Prerogative, queste ultime, che hanno fatto difetto alla più che deludente Italia: «Al di là delle dietrologie su errori e omissioni, è quello il dato che è emerso: l’Italia non sembrava animata da determinazione e voglia di vincere, ingredienti decisivi quattro anni fa».

E’ stato l’anno dell’Inter, non quello della Nazionale. Lucidati i trofei nerazzurri, resta ben poco, se non la sensazione che il calcio italiano attraversi un periodo di crisi. Un calcio malato: «La diagnosi mi sembra corretta. La grande affermazione dell’Inter in Europa può coprire i problemi, che però restano inalterati. L’importante è non sbagliare la prognosi dopo aver fatto la diagnosi". Proviamoci: «L’errore errore più grave che si possa fare è attribuire il divario tra il nostro calcio e quello degli altri al solo denaro. Se non partiamo da presupposto che il calcio è uno spettacolo e va vissuto come tale ci incamminiamo sulla strada sbagliata. Il Mondiale ha dato una lezione: fair-play e comportamento civile, in campo e fuori, da noi autentiche chimere. Il modo differente di intendere lo sport in generale e il calcio in particolare rispetto ad altri paesi è un aspetto fondamentale della crisi». Il primo passo, quindi, si chiama autocritica: «Senza quella non si va da nessuna parte.

Non c’è bisogno di qualcuno che spieghi certe cose agli addetti ai lavori ma della volontà di pensarci su a fondo e capirlo da sé. Un esame di coscienza che devono farsi tutti, ogni componente di questo mondo». Primo comandamento? «Uscire dalla logica che ci attanaglia da una vita, quella del vincere a tutti i costi. Altrove il calcio è vissuto in maniera diversa, per questo gli altri ci hanno sopravanzati. Altrove il calcio è gioco e spensieratezza, noi ci lamentiamo dello stress ma finiamo per crearcelo da soli con la schiavitù del risultato». Di tutti, le colpe: «Innanzitutto delle società, che non mettono mano a una programmazione seria e a lunga scadenza. Ma anche dei tifosi, che vogliono tutto e subito, e non aiutano a creare un clima di serenità. E della stessa stampa, che cavalca polemiche, moviole e quant’altro per proprio tornaconto.

Poi magari ci si lamenta della scarsa attenzione nei confronti dei giovani e altri aspetti del genere: ma se si pretende sempre tutto e subito è difficile mettere mano a programmi che richiedano tempo per essere attuati». Un quadro a tinte fosche. Ma non tutto è nero quel che si scorge all’orizzonte: «Mica tutto è negativo nel nostro calcio, ci mancherebbe. C’è del buono, e neanche poco. Prima di tutto, la passione. Un Paese che ha una sconfinata passione per il calcio come l’Italia non può non tornare in auge. E le risorse finanziarie: saranno minori che in altri paesi, ma non mancano, vanno solo convogliate nelle giuste direzioni.

E i giovani, appunto: ce ne sono di bravi, è importante farli crescere bene, puntando sui settori giovanili. E anche sotto il profilo degli uomini non ci possiamo lamentare: ci sono dirigenti e allenatori molto capaci». Se non sempre lavorano al meglio della loro capacità è colpa del solito peccato originale: «Il problema è sempre quello: la fretta di ottenere risultati. È per questo che da noi sia cambiano così tanti allenatori mentre altrove ce ne sono alcuni che resistono per anni e anni».

Un’altra nota dolente. Giovani tecnici che fanno bene in provincia, ma spesso non considerati ad alti livelli. Anche se qualcosa comincia a muoversi: «Allegri al Milan è un esempio importante. Ci sono allenatori giovani molto bravi, ma ho sentito ripetere mille volte che in una grande non farebbero altrettanto bene. Non capisco perché si dicano certe cose: chi fa bene può farlo ovunque». Il Milan ci prova con Allegri. Un bel po’ di tempo da ci provò (e vinse la scommessa) proprio con Sacchi: «Berlusconi mi disse: vogliamo vincere dando spettacolo: capii subito che era l’ambiente giusto per me. Cercai di cambiare una certa mentalità». Tocca farlo di nuovo: «Non è facile, ma bisogna sforzarsi. Altrimenti continueremo a parlare di crisi».
Ivo Romano - avvenire 24 Luglio 2010

CALCIO - Mercato fiacco e molti sognano i petrodollari del nababbo arabo. Allegrissimo Slow

di Roberto Duiz
CALCIO - Mercato fiacco e molti sognano i petrodollari del nababbo arabo
Allegrissimo Slow
Balotelli va e viene in silenzio dalla Pinetina sulla sua Ferrari nera. Per quante volte ancora? Il Manchester City di Mancini ha sopravanzato gli avversari nella corsa per aggiudicarselo. Il furbo procuratore Raiola tratta con lo staff dello sceicco Mansour per gratificare il suo assistito con un sontuoso contratto quinquennale. Che nessuno, in casa nerazzurra, al di là di inevitabili frasi di circostanza, verserà lacrime per la probabilissima dipartita di SuperMario è molto più di un sospetto malizioso. I leader dello spogliatoio già nella scorsa stagione hanno dato ampi cenni di stanchezza per dover fare da balie all'irriducibile Bambinone. I tifosi, paragonando l'abnegazione di Eto'o-Milito-Pandev alla sua svogliatezza, non faranno nulla per trattenerlo. Benitez non l'ha inserito nella lista degli incedibili, in compenso desidera fortemente Kuyt del Liverpool, tesse le lodi di Biabiany, tornato dal prestito al Parma, e coccola Coutinho, abile e arruolato dopo il compimento della maggiore età. Moratti, solitamente restio a separarsi dai suoi pupilli, ha il financial fair-play predicato da Platini nel mirino, dunque qualche «sacrificio» è inevitabile. Il precedente dell'anno scorso, poi, è più che confortante per i nerazzurri. La triste (ma allegrissima per il bilancio societario) rinuncia ad Ibrahimovic ha avuto un effetto benefico anche sui risultati, rendendo l'Inter più forte e vincente di prima. A dispiacersene, piuttosto, è stato Ibra, risultato di scarso peso nel Barcellona e per il quale oggi si favoleggia di un clamoroso scambio alla pari con Kakà, a sua volta deludente con la camiseta blanca del Real Madrid. E pure il nuovo c.t. azzurro, Prandelli, che in Balotelli vede uno dei gioielli della nazionale che verrà, non ha granché da dispiacersene. Potrà comunque non perderlo di vista, con la possibilità, anzi, di vederlo maturare meglio una volta tolto dalla bambagia famigliare.
Che sarebbe stato un mercato più in uscita che in entrata era ampiamente annunciato. O almeno, prima di comprare bisogna vendere. Ma non è facile alleggerire i bilanci dalla zavorra di emolumenti-monstre versati a campioni ultratrentenni, retaggio di un'epoca di scellerata euforia. Dunque, i 35 milioni che all'estero sono disposti a versare per Balotelli diventano proposte irrinunciabili. E chi uno come lui non ce l'ha in vetrina aspetta i saldi per provare a impreziosire i fondi di magazzino. Al Milan, ad esempio, nessuno era disposto a versare neanche la metà di quella cifra per Ronaldinho, che così rimane in rossonero. Facendo di necessità virtù, con abituale gioco di prestigio mediatico, Berlusconi ha annunciato la mancata cessione del brasiliano ridens come fosse un sensazionale acquisto. Nel suo one man show all'inizio del raduno del Milan - sotto il sorriso imbarazzato del nuovo allenatore, Allegri, cui non ha concesso una parola ma che ha proposto come modello a Dolce&Gabbana, come a dire che alle questioni tattiche ci pensa lui - ha garantito che Dinho rimarrà al Milan a vita, insignendolo del titolo di «miglior giocatore d'ogni epoca». Bum. Fuori, oltre un migliaio di tifosi contestavano la sua senile avarizia. A questi, ha indirettamente risposto che il Milan è già abbastanza competitivo così com'è e che se la scorsa stagione in panchina ci fosse stato lui avrebbe vinto lo scudetto. Così Allegri sa cosa lo aspetta. E comincia a prendere in seria considerazione l'idea di far da modello per D&G.
Il fatto è che nel calcio italiano (ma non solo) non circola più denaro. Il nuovo miraggio, dunque, sono gli Emirati, unica fonte cui si può attingere nella crisaccia globale. Lo stesso Berlusconi, pur cazzeggiando (ma non troppo, su questo punto), non esclude a priori l'ipotesi che il Milan possa, prima o poi, finire in mani arabe, «purché sia un gruppo serio», naturalmente. Capitan Totti è più esplicito, auspicando l'avvento alla Roma di qualche sceicco che pompi contante nelle esangui vene giallorosse. Il vulcanico presidente del Palermo, Zamparini, si fa riprendere in bermuda bianchi mentre porta a spasso il principe d'Arabia Mohsin Al-Hokair in completo blu e buffo cappelluccio, parodia di un Panama, in testa. Tra i due ci sono già in corso affari, che Zampa non nasconde di voler allargare al calcio. Per convincere 'sti nababbi (mica polli da spennare con italica, cialtrona scaltrezza) ad investire anche solo una parte insignificante dei loro immensi patrimoni, però, ci vuole un progetto credibile che vada al di là dell'affollamento di rose di giocatori già sempre troppo affollate. Stadi moderni e confortevoli per tutti di proprietà, innanzitutto, zoccolo duro di ogni pianificazione aziendale su tempi medio-lunghi. E in questa direzione c'è ancora molto deserto da percorrere prima di approdare a qualche oasi tra le dune.
ilmanifesto.it 24 Luglio 2010

ASIA/MALAYSIA - “No alle magliette con simboli satanici o di altre religioni”: leader islamici contro alcune squadre di calcio

Kuala Lumpur (Agenzia Fides) – I calciatori musulmani e tutti i fedeli musulmani non dovrebbero indossare le magliette di calcio di squadre con simboli satanici né di altre religioni: ad esempio quelle del Manchester United, perchè raffigurano il diavolo; oppure di Milan e Barcellona che hanno nel loro emblema una croce, come pure le nazionali di Brasile, Portogallo, Barcellona, Serbia e Norvegia. E’ quanto affermano due ulama malaysiani in dichiarazioni pubbliche che hanno suscitato un ampio dibattito e le proteste dei giovani malaysiani. “Un musulmano non dovrebbe dare culto a simboli di altre religioni o al diavolo”, ha detto Nooh Gadot, ulama del Consiglio religioso di Johor, a Sud di Kuala Lumpur. Secondo il leader, le magliette del Manchester United, prestigioso club inglese, molto popolare in Malaysia, sono “peccaminose” e “pericolose” perché “glorificano il diavolo”: d’altronde gli stessi giocatori del team sono chiamati “Red devils”, cioè “diavoli rossi”. Il leader ha detto che un vero musulmano non dovrebbe né comprarle ne accettarle in regalo. Il Manchester United ha un grande seguito nel paese, tanto che nel 2006 è stato siglato un accordo promozionale tra la squadra e l’ente turistico della Malaysia.

Un altro leader musulmano, Harussani Zakaria, muftì dello stato di Perak (Malaysia del Nord), ha concordato: “I diavoli vanno combattuti e non celebrati”, ha detto, e “indossando una maglia che lo rappresenta, si promuove satana”. Molti giovani malaysiani hanno reagito protestando sui social network come Facebobok e Twitter, chiedendosi divertiti se “gli ulama non sono forse tifosi del Liverpool”.

La Malaysia è un paese dove l’islam ha un volto moderato ma, secondo gli studiosi “negli ultimi anni ha conosciuto un processo di progressiva islamizzazione che ha dato un ruolo privilegiato alla sharia sulla scena pubblica”, ha rimarcato a Fides il missionario P. Paolo Nicelli PIME, esperto dell’area. A farne le spese, in passato, sono stati anche i simboli di altre religioni, come accaduto per un controverso pronunciamento di alcuni leader musulmani contro l’antica pratica dello yoga, criticata perché contenente elementi indù.
“Nel paese è in corso il tentativo di proteggere i musulmani dalle contaminazioni di altre religioni e culture, e preservare la purezza dell’islam”, spiega all’Agenzia Fides frate Augustine Julian FSC, Segretario della Conferenza Episcopale della Malaysia. D’altro canto “le giovani generazioni tendono a non seguire tali indicazioni e a distanziarsi dalle prescrizioni religiose”. “La moda e lo stile di vita occidentali sono guardati con sospetto”, nota il religioso. “Secondo alcuni leader, la Malaysia dovrebbe diventare il paese musulmano modello del Sudest asiatico, sull’esempio dell’Arabia Saudita. I muftì hanno la prerogativa di controllare e stabilire la liceità dei costumi per i musulmani e hanno influenza sul governo. E, anche se le prescrizioni non sono valide per le minoranze non musulmane, alla lunga si crea una mentalità. Fra alti e bassi, fra editti censori e fremiti liberali della società, il processo di islamizzazione va avanti e vedremo quali esiti avrà nei prossimi anni”, conclude il religioso. (PA) (Agenzia Fides 23/7/2010)